Biografia di una Guida turistica FRANCO ROMANO

Era circa mezzogiorno del 28 Febbraio 1949 quando Francesco, il sottoscritto vide la luce, in quell’umile casa della Borgata a Siracusa, in Via Pasubio 85; assistevano al parto di Pina, mia madre, allora neanche diciassettenne, la sorella più grande Maria e le due sorelle più giovani Tanina e Cettina.

Mamma Pina, nata il 18 Febbraio del 1932 era la secondogenita delle 4 figlie di Concetto Scariolo, nato nel 1896 siracusano da diverse generazioni, detto ‘u parrineddu’ per la sua umiltà e per la mitezza del suo carattere, di professione carrettiere prima e cocchiere dopo e la moglie Candiano Rosina nata anche lei nel 1896 ma originaria di Pozzallo, borgo marinaro situato nell’estremo sud della Sicilia orientale, nell’allora provincia di Siracusa passato poi alla provincia di Ragusa nel 1921, con l’allargamento del numero delle province siciliane.

Giuseppe Romano alias Pippo, mio padre, era nato il 05/06/1925 da Donna Grazia Barca e da Francesco Romano, entrambi discendenti da antiche famiglie siracusane; disgraziatamente Pippo non ebbe la fortuna di conoscere il proprio padre, poiché quest’ultimo morì in un tragico incidente stradale avvenuto nel 1928, tra l’altro il primo incidente automobilistico in assoluto a Siracusa, quando Pippo aveva appena 3 anni e la madre Donna Grazia era incinta del suo secondogenito, a cui sarà dato il nome di Francesco in ricordo del defunto marito.

Il nonno Francesco era il primogenito di una numerosa prole ed era dedito al commercio di mangimi per animali, interessandosi anche alla compravendita di cavalli, che venivano acquistati nel fiorente mercato del bestiame a Verona e poi rivenduti sul territorio siracusano, attività che gestiva brillantemente tanto da essere considerato in città un commerciante affermato e benestante; Donna Grazia fu subito avvertita dell’incidente occorsogli al marito ed ebbe il tempo di raggiungere il marito morente in Ospedale, il quale purtroppo per le ferite interne riportate spirò dopo alcune ore; la vedova non fu mai risarcita della morte del marito e visse in estrema povertà per tutta la vita, aiutata inizialmente dai propri fratelli ma soprattutto dal proprio padre Don Sebastiano Barca.

Nonno Francesco il giorno dell’incidente andava in bicicletta com’era nelle sue abitudini, spostandosi da un punto all’altro della città per seguire da vicino i lavori svolti dai suoi collaboratori, quando in Via Elorina proprio di fronte all’Areonautica, una vettura proveniente dalla Plaia in direzione Siracusa Ortigia imboccando il curvone a velocità sostenuta, sbandò paurosamente invadendo così la corsia opposta e travolgendo il poveretto in sella alla sua bici; a quei tempi a Siracusa circolavano pochissime auto e l’auto che travolse Nonno Francesco, apparteneva alla Curia siracusana che proprio quel giorno trasportava il Vescovo di Siracusa ed alcuni prelati.

L’impatto fu talmente violento che il rumore attirò i militari del vicino Idroscalo i quali vista la gravità dell’incidente si adoperarono per chiamare una carrozza pubblica (a quei tempi non esistevano taxi a Siracusa) che trasportò il malcapitato ancora vivo, all’Ospedale cittadino che all’epoca era ubicato in Ortigia, proprio nella Piazzetta San Rocco; Donna Grazia che in quel periodo era in dolce attesa, grazie al vicinato fu subitamente accompagnata all’Ospedale dove vide per l’ultima volta il proprio marito.

Intanto la giovane vedova fu subito esclusa dai profitti dell’Azienda del marito, in quanto donna e liquidata con una irrisoria somma a titolo di risarcimento per la parte spettante agli eredi, elargita dai cognati subentrati prepotentemente nell’attività, con il tacito consenso del suocero.

Dopo la morte del loro padre, Pippo ed il fratellino Francesco nato nel frattempo e chiamato affettuosamente ‘Ciccio’ furono affidati ad un Collegio per bambini orfani, a spese degli zii paterni che volevano così proteggerli dai ‘pericoli della strada’ e camuffare soprattutto le spettanze dell’attività, dovute alla vedova ed ai suoi due figli; intanto gli anni passavano e i tempi diventavano sempre più difficili per Nonna Barca, (così veniva chiamata da noi tutti) che da sola, doveva tirare avanti tra mille difficoltà adattandosi ad accettare qualsiasi lavoretto pur di sfamare i suoi piccoli.

Tra i vari piccoli lavori ve n’era uno in particolare che lei preferiva espletare, poiché poteva farlo anche restando a casa; siccome la Nonna Barca era la sola ‘istruita’ del suo quartiere, tutti gli analfabeti della zona, ed erano molti, si rivolgevano a lei per leggere o scrivere la propria corrispondenza dato che tutti avevano famigliari in ogni parte del mondo e così facendo la Nonna Barca riceveva in cambio dei ‘regalini’ come uova, formaggio, pasta e quant’altro, che le permettevano di sopravvivere

Intanto i figli Pippo e Ciccio crescevano mal sopportando la vita del Collegio con le sue rigide regole imposte dai religiosi e così sempre più spesso i due ragazzini lasciavano momentaneamente e di nascosto il Collegio per rifugiarsi dalla madre che naturalmente era felicissima di ricongiungersi con i propri figli, ma le condizioni economiche non le permettevano di tenere con sé i ragazzi, anche se Ciccio per non pesare sul bilancio della casa materna, trovava rifugio presso la Zia Marietta, sorellastra del suo defunto papà Francesco, donna votata al nubilato e avanti con gli anni ma estremamente pia e caritatevole che qualche volta lo rifocillava e qualche altra volta lo ospitava per la notte.

Nel 1934 la Nonna Barca nel pieno della sua splendida bellezza ebbe modo di conoscere un giovane ed aitante uomo, originario della Calabria, momentaneamente a Siracusa per dirigere i lavori della costruenda Chiesa del Pantheon; fu il classico ‘colpo di fulmine’ e sembrava anche che il calabrese volesse stabilirsi definitivamente a Siracusa e prendersi carico della Nonna Barca e dei suoi due figli.

L’atteggiamento dell’uomo cambiò allorquando la Nonna rimase incinta del suo terzo figlio Aldo e dopo alterne vicende e finiti i lavori del Pantheon, il calabrese rientrò nel suo paese d’origine e non fece mai più ritorno a Siracusa provocando un’ennesima e terribile delusione nel cuore già provato della Nonna Barca; per mitigare l’atteggiamento del Calabrese, in famiglia si raccontava che questi, fino al giorno della sua morte, custodiva nel suo portafogli la foto di quel bambino, che aveva così tristemente abbandonato o che aveva dovuto forzatamente abbandonare (erano altri tempi e forse la famiglia di lui ostacolò quest’unione) ma la coraggiosa Nonna Barca, affrontò l’evento a testa alta e Aldo fu cresciuto amorevolmente alla stessa stregua degli altri due fratelli, dandogli orgogliosamente il proprio cognome.

I cognati della Nonna Barca continuarono a gestire l’Azienda che era stata già del proprio defunto marito ed alla fine fra spartizioni e litigi il tutto andò a finire nelle mani di Nino Romano, l’ultimo nato del secondo matrimonio del suocero.

Intanto i due fratelli Pippo e Ciccio avevano abbandonato definitivamente il Collegio poiché gli zii non avevano più voglia di pagare la retta mensile, come per punire la Nonna che aveva avuto il solo torto di aver intrapreso una relazione illegittima (a quei tempi una donna non sposata che avesse avuto una relazione o peggio ancora un figlio da padre sconosciuto, era considerata una poca di buono); Aldo invece non conobbe mai il Collegio poiché sua madre lo tenne sempre amorevolmente con sé.

Nel 1943 mio padre avendo appena compiuto 18 anni come tutti i giovani della sua età si apprestava a partire per il fronte ma fortunatamente per lui, nel mese di Luglio, dello stesso anno, in Sicilia sbarcarono i due Corpi d’Armata, quello Inglese sulla costa siracusana e quello Americano sulla costa agrigentina e di conseguenza la partenza del suo contingente fu annullata; Pippo evitò la partenza al fronte ma dovette affrontare il difficilissimo periodo dell’immediato dopoguerra dove non si riusciva a trovare nemmeno un briciolo di farina, anche a pagarlo a peso d’oro, ammesso che si avessero avuti i soldi necessari.

Intanto la città di Siracusa e la Sicilia tutta, nella Primavera del 1943, poco prima dell’imminente sbarco, era stata abbondantemente bombardata dall’aviazione inglese che faceva base nella vicina Malta, ma dopo lo sbarco degli Alleati, avvenuto il 10 Luglio dello stesso anno, in contrada Cassibile presso Siracusa, fu firmato il primo l’Armistizio in territorio ‘europeo’, in data 08 Settembre che pose fine al Secondo conflitto mondiale lasciando ai siciliani in eredità, una gran quantità di residuati bellici in buona parte inesplosi sparsi su tutto il territorio; nelle campagne siciliane si trovava di tutto, oltre i corpi straziati di soldati per lo più tedeschi, divise militari, stivali, fucili, elmetti e tante tante munizioni, insomma tutto ciò che veniva abbandonato dai militari italiani che fuggivano dalla guerra, poiché le notizie del fronte non erano delle migliori e poi Mussolini era decaduto ed al suo posto si era insediato il Governo Badoglio.

Al fine di racimolare qualche soldo, molti siciliani tra cui numerosi bambini si diedero al recupero del rame di tali munizioni che venivano in buona parte venduti ai rigattieri; un lavoretto apparentemente semplice ma pericolosissimo in quanto bisognava staccare pian piano l’ogiva dal proiettile, svuotarlo della polvere da sparo e recuperare il rame, metallo ricercatissimo a quei tempi allora come ancora oggi e questa operazione sembrava ai ragazzini quasi un gioco ma numerosi furono coloro che ci rimisero le dita, a volte le mani, altri un occhio e ci fu perfino chi ci rimise un braccio, insomma tutta colpa della fame.

Intanto mio padre come tanti altri giovani della sua età era dedito al contrabbando di viveri poiché tutto era razionato e di conseguenza si era sviluppato il ‘mercato nero’ che fortunatamente permetteva di sopravvivere; si rubava di tutto e si vendeva di tutto, abbigliamento usato, scarponi militari e perfino armi abbandonate dai militari italiani in fuga ma fortunatamente non vi erano controlli quindi non si veniva perseguiti per il semplice fatto che anche le Forze dell’ordine erano allo sbando.

Intanto sul finire del 1947 Pina Scariolo mia madre, all’età di appena 15 anni conobbe casualmente un giovanotto vispo ed intraprendente, di 7 anni più grande di lei, Pippo Romano, mio padre che come abbiamo visto, era nato nel 1925; malgrado la loro giovane età, i due innamorati, pensarono bene di sposarsi ma non avendo i mezzi necessari per organizzare il loro matrimonio, misero in atto la classica ‘fuitina’ com’era nelle abitudini di quel tempo la quale non produsse però ‘il frutto dell’Amore’ poiché la gravidanza fu interrotta da un aborto spontaneo, per cui la giovanissima coppia ritentò l’esperimento l’anno successivo e questa volta con successo e fu così che il sottoscritto vide la luce.

I due giovani innamorati ma senza un soldo furono nel frattempo accolti a casa della Nonna Barca nel Vicolo Minosse, lungo la Via Elorina proprio all’altezza del passaggio a livello non più esistente; l’appartamento era situato al primo piano, dove dal nostro balcone assistevamo alle manovre dei treni lungo il binario che dalla Stazione Centrale andava al Porto dove era ubicata la Stazione Marittima.

La locomotiva alimentata dal carbone emetteva nuvoloni di fumo nero che se per caso mia madre avesse dimenticato di raccogliere la biancheria stesa al sole ad asciugare questa si sarebbe totalmente annerita; i vagoni passavano cosi vicino ai nostri balconi che avevamo l’impressione di poterli toccare con le mani e questo ci procurava cosi tanta paura ad ogni passaggio, che io e mio fratello Claudio ci facevamo la pipì addosso e ci nascondevamo sotto il tavolo.

La Nonna che già accudiva gli zii Ciccio e Aldo ancora celibi, fece da madre a tutti quanti e grazie all’armonia familiare che lei sapeva infondere nella nostra casa, tutti noi abbiamo vissuto una spensierata fanciullezza ed una felice adolescenza malgrado la povertà regnasse sovrana in casa nostra; la Nonna era instancabile, era lei la prima ad alzarsi al mattino e l’ultima ad andare a dormire, era insostituibile poiché sapeva cucire, rattoppare, pulire, cucinare, leggere e scrivere e non era cosa da poco.

La seconda guerra mondiale era stata assai dura sotto ogni aspetto ma gli anni successivi del dopoguerra lo furono molto di più e intanto mio padre che doveva sfamare la sua famigliola era sempre alla ricerca di un qualsiasi lavoro peraltro difficile da trovare; per molti siciliani emigrare sembrò essere l’unica soluzione per cui assistiti dagli Uffici di Collocamento molti giovani ma anche gente avanti con gli anni partirono a frotte per destinazioni lontane e così anche mio padre fu costretto ad emigrare ancor prima che io venissi al mondo, per cui quando io nacqui nel 1949, mio padre si trovava in Belgio a circa 3.000 km di distanza.

Nei miei ricordi affiora prepotentemente la figura della Nonna Rosina, così chiamavamo affettuosamente la nonna materna che come buona parte delle donne di una volta era sempre vestita di nero, perennemente in lutto, con la quale trascorrevo a casa sua molto del mio tempo ed è proprio lei che mi raccontava della sua infanzia a Pozzallo, borgo marinaro situato nell’estremo sud della Sicilia Orientale, dove era nata e cresciuta in un’umile famiglia di pescatori; in questi borghi marinari le donne erano sempre in numero maggiore rispetto agli uomini poiché molti di questi s’imbarcavano su navi che andavano in giro per il mondo facendo ritorno dopo mesi se non dopo anni e di qualcuno se ne perdevano addirittura le tracce ed è anche per questo motivo che le donne del paese preferivano trovare marito in settori lavorativi diversi dalla marineria e fu così che la nonna Rosina, conobbe Concetto Scariolo, mio futuro nonno materno e suo futuro marito, di professione carrettiere che periodicamente trasportava materiali di ogni tipo da Siracusa a Pozzallo e viceversa.

Ed era sempre la Nonna Rosina che mi raccontava altri episodi come la scomparsa di un suo fratellino imbarcatosi in un peschereccio come mozzo all’età di 12 anni e che non fece mai più ritorno a casa in quanto disperso durante il terribile terremoto di Messina del 1908 che provocò la morte di circa 120.000 persone; mi raccontava anche di una sua sorella poco più grande di lei, che chiamavamo Za Pippina, donna sicuramente intraprendente che pur di rimanere accanto al figlio militare, aveva girovagato per l’Italia intera per più di un anno rincorrendo il reggimento in cui prestava servizio il proprio figlio.

Un altro episodio che mi riguardava personalmente e che la Nonna Rosina amava raccontarmi, era quello della mia primissima infanzia; nei primi mesi di vita, venivo allattato da mia madre ma poi verso i sei o sette mesi, mia madre dovette abbandonare l’allattamento e così il latte fu comprato da un lattaio che passava tutti i giorni, Domenica compresa, dalla casa della nonna alla borgata al numero 85 di Via Pasubio.

Purtroppo il cambiamento mi causava frequenti rigurgiti che furono scambiati inizialmente per dei malesseri passeggeri però man mano che passavano i giorni le cose peggioravano; naturalmente fu chiamato il medico di famiglia ed anche lui non seppe dare una spiegazione a questi vomiti, mentre io m’indebolivo sempre più fino a quando fu chiamato, per l’ennesima volta, un medico il quale sentenziò che il problema era collegato ad un brutto male congenito e che non c’era nulla da fare se non aspettare la morte che, sempre a detta del medico sarebbe arrivata di lì a poco.

Quella stessa sera dopo cena mia madre, la Nonna Rosina e le mie zie tra lacrime e lamenti mi vestirono con gli abiti più eleganti attendendo che la Morte mi portasse via, ma poi la Nonna guardando distrattamente la poca pastina cotta in un brodino a base di broccoletti, rimasta sul fondo dei piatti, pensò bene di farmene assaggiare un po’.

A quel punto io cominciai a muovere le labbra come per apprezzare e mia Nonna, in un lampo di genio intuì che gradivo bene questo tipo di pappa e continuò con insistenza ad imbeccarmi pensando che se dovevo morire almeno sarei morto con la pancia piena.

Fu la mia salvezza poiché di lì a poco mi addormentai mentre tutti i miei famigliari vegliavano su di me, aspettando la mia morte ma io dormii profondamente fino al mattino successivo; da quel momento non mi fu più dato del latte e tutti capirono finalmente il motivo della mia intolleranza.

Intanto Pippo, mio padre, partito nel 1948 in Belgio, dopo varie peripezie aveva dovuto accettare, per forza maggiore e suo malgrado, di lavorare nelle miniere di carbone insieme ad altri disgraziati provenienti da ogni parte del mondo, marocchini, polacchi, spagnoli, turchi e greci e curiosamente la difficoltà più grande di questa accozzaglia di lavoratori, a detta di mio padre, era il fatto di non riuscire a comunicare tra di loro poiché ognuno parlava nella propria lingua; dopo circa sei mesi di duro lavoro, un’esplosione in miniera interruppe per sempre la ‘carriera mineraria’ di mio padre il quale fu obbligato ad una lunga degenza in un Ospedale belga, subendo la parziale perdita dell’udito e rischiando perfino la perdita della vista.

Mio padre fu dimesso dall’Ospedale belga circa 10 mesi dopo, quasi guarito ma con un certificato che attestava la sua impossibilità a continuare a lavorare nelle miniere dove la regola primaria era ‘la sana e robusta costituzione’ che era venuta meno dopo l’incidente; anziché cercare un altro lavoro sul posto, Pippo preferì rientrare a Siracusa dove mi vide per la prima volta, poiché fino ad allora mi aveva visto solo in fotografia ma la ritrovata unità famigliare, gli diede modo di mettere in cantiere un secondogenito, Claudio il quale nascerà poco dopo nel 1951.

Era l’inizio dell’industrializzazione del siracusano e cominciavano a spuntare le prime ciminiere delle raffinerie di petrolio e con esse il petrolchimico; il lavoro c’era, soprattutto per i raccomandati, di cui non faceva parte mio padre e i siciliani accorsero da ogni parte dell’Isola, mentre la manodopera specializzata venne tutta dal Nord, anche perché i siciliani e più particolarmente i siracusani, non avevano avuto il tempo di seguire appositi corsi formativi nei vari istituti tecnici del luogo.

Nel territorio siracusano avvenne qualcosa di paradossale in quanto se da una parte i siciliani si spostavano verso il Nord Italia o l’Estero per cercare lavoro e fortuna, dall’altra parte numerosi giovani periti industriali, chimici ed elettromeccanici arrivavano a frotte in Sicilia dal Nord Italia, attirati da questo grande polo industriale che sembrava promettere bene; questi giovani ‘polentoni’ diedero un grande impulso all’economia locale in quanto questa ‘immigrazione’ significò più consumi in tutti i settori, che andavano dall’abbigliamento al cibo, dall’artigianato all’imprenditoria, inoltre molti di questi giovani sposarono ragazze siracusane, mentre chi era già sposato trasferì qui la propria famiglia.

Anche noi avevamo come vicini una famiglia originaria di Monfalcone di nome Pavan con i cui figli abbiamo condiviso la fanciullezza e l’adolescenza, e questi ragazzi come tanti altri nella stessa condizione, crescendo nel corso del tempo si sono trasformati in autentici siracusani

In questa fase di grande sviluppo economico nacquero numerose piccole imprese artigiane e commerciali ed in questo frangente mio padre riuscì a mettere sù una piccola azienda tipo segheria dove si producevano ‘gabiette’, cioè piccoli contenitori di legno i quali venivano usati per il trasporto di prodotti ortofrutticoli; ma come ben si sa la fortuna è un elemento indispensabile per la riuscita di un qualsiasi commercio e così per due anni consecutivi il settore ortofrutta venne a mancare a causa di negativi fattori climatici determinando così la chiusura dell’azienda.

La vicinanza e relativa frequentazione tra la famiglia di mia madre e quella di mio padre fece sì che mio zio paterno Ciccio, s’innamorasse della sorella di mia madre, la Zia Tanina, come la chiamavamo affettuosamente; si sposarono nel 1955 ed ebbero due figli, Silvana e Dario.

Sempre nel 1955 a sei anni non ancora compiuti fui iscritto direttamente alla Seconda Classe Elementare, alla G.I.L. (Gioventù italiana del Littorio) di Via Malta poco distante da casa mia, rigorosamente abbigliato col grembiulino nero, il colletto bianco ed il fiocco azzurro che ci distingueva dalle femminucce i cui fiocchi erano di colore rosa; in questa Scuola completai il ciclo delle Elementari, dove le tabelline, le 4 semplici operazioni matematiche e le poesie da imparare a memoria furono il mio più grande incubo.

Non parliamo poi dell’eterna lotta che quotidianamente noi bambini dovevamo affrontare in classe, con il calamaio incorporato nel banco, l’inchiostro, la carta assorbente, i pennini sgangherati e per finire le strigliate di mia madre per come ci conciavamo a fine lezione.

Anche allora esisteva il ‘bullismo’ ma solamente nel genere maschile, seppur in forma molto ridotta rispetto ad oggi ma i nostri genitori ci esortavano a reagire in tutti i modi in qualunque circostanza; ricordo che all’epoca vicino la nostra scuola c’era una fabbrica di ghiaccio il quale veniva trasportato all’interno di carretti chiusi, foderati internamente con zinco e con una porticina dietro che restava aperta quando il carro non veniva usato.

Un giorno all’uscita della scuola intorno alle 17,00 m’infilai per gioco all’interno di uno di questi carri incitando i miei compagnetti a fare altrettanto; preso dall’euforia del gioco non mi accorsi che qualcuno aveva chiuso la porticina dall’esterno e quando mi resi conto che ero al buio e che non potevo uscire mi misi a piangere gridando disperatamente e chiedendo aiuto e dopo circa una ventina di interminabili minuti, sentii il rumore del maniglione esterno che venne finalmente aperto.

I miei compagni erano tutti spariti e non seppi mai chi fosse stato a chiudere il portellone mentre ad aprirlo era stato un signore che passando casualmente di là e sentite le grida d’aiuto intervenne subito.

Nel 1956 ci trasferimmo in Via Francesco Crispi, la strada della Stazione, proprio all’inizio, che dava quasi sul Piazzale Marconi, in cui tutti i giorni Domenica compresa, all’alba si riuniva una gran folla di persone, campagnoli e manovali, nell’attesa che i ‘capiciurma’ secondo le esigenze dei ‘padroni’ scegliessero i fortunati che venivano condotti al lavoro, cioè una specie di Ufficio di collocamento all’aperto; alle ore 08,00 circa non c’era quasi più nessuno e i pochi rimasti si attardavano nel Bar Cannata, giocando a carte o discutendo davanti ad una tazza di caffè, sulla malasorte e sulle ingiustizie della vita.

La nostra nuova casa, era ubicata in una zona strategica da dove potevamo spostarci facilmente per raggiungere gli altri due quartieri della città: la Borgata, e Ortigia poiché non esistevano ancora i quartieri di Viale Zecchino, di Santa Panagia, Grottasanta ed Epipoli.

In questa nuova casa, che avevamo naturalmente preso in affitto, c’erano 11 stanze, un’ampia cucina abitabile e due bagni spaziosi, una lunga balconata che dava sulla Via Carini e 4 balconi che davano sulla Via Crispi, per cui essendo molto grande i miei genitori decisero di subaffittare 7 delle camere a gente che veniva a lavorare saltuariamente nella zona industriale di Augusta mentre io, mio fratello Claudio e la nonna dormivamo nella stessa stanza; ricordo molto bene tra i numerosi ospiti un gruppetto di cinque persone, livornesi o spezzini specializzati in lavori subacquei ed impegnati nel costruendo Pontile Isab, i quali mi raccontavano a volte alcune delle loro avventure sottomarine avute nei loro precedenti lavori ed io li ascoltavo come incantato e la mia fantasia si scatenava in un mondo senza confini.

Ricordo anche un certo Sig. Santonocito, un giovane perito industriale che lavorava alla Sincat di Priolo il quale abitò lungamente da noi ed ancora un certo Zappalà il quale era un appassionato cultore e collezionista del fumetto fantascientifico Gordon Flash, di cui mi regalò tutta una collezione; ma coloro che restarono lungamente affezionati ai miei genitori furono i coniugi palermitani Daddi il cui marito lavorava alle Ferrovie dello Stato, temporaneamente trasferito in zona Siracusa ed anche i coniugi Felaco napoletani il cui marito anche lui lavorava alle Ferrovie

I coniugi Daddi, persone per bene e dal cuore grande, si rivelarono da subito affettuosi benefattori in quanto nel 1957 mia madre diede alla luce due gemellini Concetto e Graziella i quali sin dalla loro nascita manifestarono seri problemi di salute tanto che i medici locali consigliarono di portarli all’Ospedale dei Bambini a Palermo, dove rimasero ricoverati per quasi un anno.

Malgrado l’Ospedale palermitano fosse rinomato come un centro d’eccellenza, i medici non riuscirono a strappare alla morte i due bambini; per tutto il periodo di degenza, mia madre alloggiò dai Daddi i quali non avendo figli l’accolsero con amorevolezza nella loro casa di Palermo e questo gesto rimase impresso nella mente dei miei genitori per tutta la vita, tanto che le nostre famiglie si frequentarono ancora per molti anni e la stessa cosa avvenne con la famiglia Felaco che molti anni dopo nel 1967 mi ospitarono per un paio di settimane nella loro casa di Napoli.

Proprio sotto i balconi che davano in via Francesco Crispi vi era i fratelli Linguanti che gestivano un emporio di prodotti per la lavorazione della pasticceria siciliana nonché rivenditori all’ingrosso dei famosi biscotti Colussi; accanto a loro vi era un artigiano che intrecciando giunchi e canne, produceva dei contenitori che chiamavamo ‘panari’ ed anche contenitori più grandi che venivano chiamati ‘cufini’ e l’artigiano di conseguenza era detto ‘u cufinaro’; infine a qualche porta di distanza vi erano i fratelli Vella che facevano parte dell’antico mestiere dei barbieri e occasionalmente dei dentisti.

La nostra unica e grande balconata dava sulla Via Gen. Carini, una stradina parallela alla Via Crispi, dove giocavamo sovente al pallone, nelle ore pomeridiane, ‘assicutati’ (cacciati via) spesso dal vicinato il quale all’ora della siesta mal sopportava il nostro vociare che veniva interrotto solo dopo aver ricevuto una bacinella piena d’acqua da uno dei balconi; ma non c’era cattiveria in questo gesto poiche’ non tutte le famiglie di noi bambini avevamo a casa la televisione per cui, lo stesso vicinato, pur di impedirci di schiamazzare, ci invitava nella propria casa per guardare la televisione.

Erano i tempi in cui noi bambini venivamo affascinati da questa ‘scatola parlante’ e nel pomeriggio intorno alle 17,00 in punto, ora in una ora in un’altra casa, guardavamo la TV dei Ragazzi o Rin Tin Tin; ricordo la Sig. La Spada, nostra dirimpettaia che aveva una strana televisione dove introducendo una moneta da 100 lire si accendeva la scatola parlante, funzionando per un’ora e una volta scaduta l’ora, la TV si spegneva automaticamente e per rimetterla in moto bisognava introdurre un’altra moneta da 100 lire e così via.

Nello stesso immobile al piano superiore abitava il Sig. Burgio ma tutti lo chiamavano Garibaldi, non ho mai saputo se fosse il suo cognome o il suo soprannome, il quale gestiva un Bar in Via Piave alla Borgata ed ogni giorno durante l’ora di chiusura pomeridiana rientrava a casa per riposare e lasciava la sua bicicletta dentro il portone e cosi io la prendevo di nascosto finché imparai a stare in equilibrio e pedalare.

Nel 1958 abbandonata l’attività di ‘affitta camere’ ci trasferimmo in un modesto appartamento sito al primo piano di un immobile in Via Catania 42, poco distante dal precedente e solo il giovane Santonocito, perito elettromeccanico, impiegato nella zona industriale restò ancora qualche anno con noi fino al suo matrimonio avvenuto nel 1963.

I balconi di questa nuova casa davano sui giardini pubblici, che noi chiamavamo ‘villini’ dove si ergevano maestosi dei Ficus Benjamin, dal folto fogliame che ospitavano una miriade di passeri che cominciavano a cinguettare assordantemente all’alba, fungendo da sveglia a tutti coloro che abitavamo nei paraggi; questi passeri rientravano poi al tramonto con lo stesso rumoroso cinguettìo ma prima che facesse notte volavano in massa nel cielo volteggiando e creando fantasiose figure geometriche.

Poco distante da casa nostra vi era la Chiesa del Pantheon, dove io e mio fratello Claudio seguivamo i corsi di Catechismo, impartiti dalla Signora Malandrino e dove la Domenica servivo la Messa vestito da Chierichetto; nell’ ampia piazza, antistante la Chiesa, nelle calde serate estive, tutti i ragazzini del quartiere ci riunivamo per giocare a pallone fino a tarda sera cioè fino a quando mia madre, dal nostro balcone di casa, ci chiamava ad alta voce per rientrare ed andare a letto dopo uno scrupoloso bagno.

Di queste interminabili partite di pallone ricordo che venivano spesso interrotte dai Vigili Urbani motorizzati i quali ci impedivano di giocare e a volte ci sequestravano perfino il pallone giustificando il fatto che giocare in strada era pericoloso poiché passavano le auto che in verità erano appena il 10 per cento delle auto attuali.

Di fronte al portone d’ingresso del nostro palazzo vi era il passaggio a livello della linea ferroviaria Siracusa Catania ed accanto vi era un chioschetto bar ed ancora accanto vi erano i giardini della Chiesa del Pantheon; il proprietario del Chioschetto era un certo Zu Tanu, col cui figlio Agostino, mio coetaneo, giocavamo spesso insieme e all’epoca il nostro gioco preferito era il ‘battezzo del sale’ che consisteva nello scegliere una vittima tra noi ragazzini, bloccarla, abbassargli i pantaloncini e cospargere di sale le parti intime.

Naturalmente i ragazzini di oggi non solo non capirebbero questo tipo di scherzo ma non troverebbero neanche niente da ridere, ma noi ci divertivamo da matti; un altro gioco famoso era lo ‘scannello’ cioè ci procuravamo un bastone di legno da 50 o 60 centimetri ed un altro più corto appuntito alle estremità, in modo che se veniva colpito dall’altro schizzava via e bisognava colpirlo al volo per poterlo lanciare il più lontano possibile; in questa gara vinceva chi scagliava il legno piccolo il più lontano possibile.

Un altro gioco strano era ‘u sciusciunu’ cioè si appoggiavano per terra addossate ad un muro un mucchietto di ‘figurine’ raffiguranti personaggi famosi come attrici, attori, sportivi e calciatori e soffiavamo forte in direzione delle figurine in modo che le stesse, ricevendo il soffio, si rivoltassero e vinceva colui che riusciva a far girare più figurine possibile, tutte appartenenti all’antagonista che venivano così incamerate dal vincitore; poi c’era anche la ‘fossetta’ e cioè si scavava una fossetta poco distante da un muro, poi sceglievamo il tipo di oggetto da lanciare, generalmente le ‘catinelle’ ed in seguito le monetine e una volta lanciato ‘il pezzo’ vinceva chi per primo lo faceva cadere nella fossetta, appropriandosi degli altri pezzi, altro gioco era ‘la trinca’ cioè creavamo col gesso dei riquadri numerati per terra e ci spostavamo saltellando secondo la numerazione dei riquadri e vinceva chi non faceva errori; ed in ultimo c’era anche il gioco del pallone o le lotte individuali, insomma la nostra fantasia si scatenava per trovare nuovi e complicati giochi.

Questi giochi innocenti erano il passatempo preferito di noi ragazzini poveri, di strada e senza giocattoli, anzi i giocattoli ce li creavamo noi come per esempio ‘u carrittulu’ (il carrettino) che consisteva nel procurarsi una tavola di legno dalle dimensioni di circa cm 50×60 sul cui lato corto, parte inferiore veniva fissato un bastoncino di circa 52 cm alle cui estremità venivano inseriti e fissati due cuscinetti in acciaio facilmente reperibili dai rigattieri del ‘ferri vecchi’; nell’altra parte del lato corto, nella parte inferiore veniva fissato un cuscinetto sempre in acciaio ma un po’ più robusto mentre un asse in legno trapassava la tavola base, su cui veniva montato il ‘manubrio’ che serviva a manovrare u carrittulu che spingevamo con il piede e restando seduti sulla tavola base.

Il monopattino era un altro giocattolo che fabbricavamo noi bambini poveri per non parlare di spade e pistole di legno raggiungendo in questo ‘artigianato, una maestrìa di alto livello ma come ben si sa la povertà aguzza l’ingegno.

Per ritornare al mio amico Agostino, figlio del proprietario del Chioschetto, in età adolescenziale ci perdemmo di vista e in età adulta seppi dai media che era diventato il capo assoluto della delinquenza siracusana ma fu assassinato nell’estate del 1992 in uno stabilimento balneare in località Fontane Bianche poco distante dalla città.

Sotto i nostri balconi, a piano terra vi era la bottega del Sig. Bramante ‘u suddunaru’ rinomato artigiano, figura professionale scomparsa nel corso del tempo, cioé colui che abbigliava il cavallo, generalmente di razza francese ‘pecheron’ del carretto siciliano; per prima cosa creava il sellone tempestato di specchietti luccicanti e campanelle che con il loro tintinnìo rallegravano il passo del cavallo il quale portava in testa ‘u giummu’ una specie di alta corona decorata con nastrini di diversi colore, con piume variopinte e per finire il pettorale decorato anch’esso con tante campanelline il quale completava la bardatura.

Il carretto rigorosamente scolpito in legno di faggio veniva anch’esso decorato ma non dal ‘suddunaru’ ma da un artista pittore che raffigurava scene tratte dal nostro teatro dei Pupi, oppure raffigurazioni religiose come apparizioni di Santi o scene di miracoli; la sfilata in realtà era una gara fra carrettieri a chi avesse avuto il carretto meglio decorato ed il cavallo meglio addobbato e questa sfilata avveniva in determinati giorni di festa dell’anno, come il Lunedì di Pasqua, ma il bello delle sfilate era il fatto che sul carretto salivano dei musicisti vestiti con abiti tradizionali di colore bianco, nero e rosso e mentre le donne intonavano canti popolari siciliani, gli uomini si esibivano musicalmente con fisarmonica, quartara, marranzano, tamburello e friscaletto, rallegrando il pubblico al loro passaggio.

Nel 1960 si sposò la più piccola delle sorelle di mia madre, Concettina, detta semplicemente Cettina la quale si era innamorata, del più piccolo dei fratelli di mio padre, Aldo e così si sposarono, con la benedizione della Za Pippina che per l’occasione era venuta da New York, città dove si era trasferita nell’immediato dopo guerra, unicamente per assistere al matrimonio; ricordo il giorno del matrimonio con tutti gli invitati agghindati a festa, gli uomini con abiti scuri e cravatte e le signore rigorosamente con un cappello in testa, corredato da un velo che incuriosiva noi bambini e poi cibo a non finire, dalla coppa del cocktail di gamberetti e maionese, alla pasta condita con indecifrabili ingredienti, con ripasso di pasta e un secondo a base di carne con patate al forno, per non parlare della torta che mi superava in altezza, insomma quel giorno non si finiva mai di mangiare, per fortuna le immancabili fotografie interrompevano la trafila delle portate mentre gli sposi attendevano con pazienza la fine del pranzo quando dovevano posare per la foto ricordo, naturalmente con tutti gli ospiti intervenuti.

C’erano tutti i parenti degli sposi, zie, zii, infiniti cugini, nonne e nonni oltre ai parenti lontani dove fra tutti spiccava per il suo linguaggio americanizzato, la Za Pippina, ossequiata da tutti dopo che si era sparsa la voce che era stata proprio lei a finanziare questo matrimonio; che splendida giornata.

In seguito Aldo e Cettina ebbero tre figli Maurizio, Daniela e Valeria ed il loro matrimonio fu un’unione di felicità d’altronde come quello di mio zio Ciccio e di mia zia Tanina; inutile ricordare che i figli dei tre fratelli sposati con le tre sorelle, erano sì cugini ma in realtà era come se fossero stati tutti fratelli e sorelle senza contare che i nonni erano gli stessi per tutti noi cuginetti.

Sempre nel 1960 la mia famiglia si allargò con l’arrivo del terzogenito Gerardo ma ancora una volta le ristrettezze economiche costrinsero Pippo a cercare lavoro all’estero e nel 1963 mio padre partì per la Svizzera e questa volta mia madre volle seguirlo e così tutti e tre i figli, Franco, Claudio e Gerardo, fummo lasciati in custodia alla preziosa Nonna Barca.

L’assenza dei miei genitori fu per me un periodo veramente dannoso poiché mi era facile eludere la sorveglianza della Nonna e così cominciai a marinare la scuola ed avere brutte frequentazioni senza contare che fui bocciato per ben due volte al secondo anno della Scuola Media Statale Paolo Orsi; nel frattempo la mia educazione e quella dei miei fratelli fu affidata a mio Zio Ciccio il quale abitando in altra casa non poteva controllare tutto il nostro operato.

Di quegli anni scolastici ricordo i professori; del primo anno non ricordo il nome ma so per certo che il Prof. di Lettere era di Forlì, nel secondo anno il Prof di Lettere si chiamava Bondì ed era molto severo, non sorrideva mai, ben inserito nella politica locale quale segretario del Partito Socialista Italiano e fu lui il fautore della mia prima bocciatura ed infine il Prof. Carbone anch’esso non siciliano, molto empatico ma fui lo stesso bocciato per la seconda volta di seguito.

Non so perché ma negli anni della Scuola Media ricordo perfettamente i miei professori di lettere ma non quelli delle altre materie di cui non ricordo né i nomi e né i volti e nemmeno qualche aneddoto; forse nacque in quegli anni la mia passione per la lettura, oppure questa passione era già dentro di me.

I miei genitori non impiegarono molto a capire che i soldi guadagnati all’estero non bastavano al mantenimento della casa in Svizzera e quella di Siracusa e così due anni dopo rientrarono.

Una volta rientrati dalla Svizzera i miei genitori si stabilirono definitivamente in città e mio padre andò a lavorare in qualità di ‘ capo segantino’ cioè responsabile del primo taglio del legno, nella segheria dello zio paterno Nino, che nel corso degli ultimi anni era diventata nel frattempo una grande Azienda per la vendita all’ingrosso e al dettaglio di ogni tipo di legname impiegando circa centoventi unità lavorative; mio padre vi rimase fino al pensionamento.

La Segheria era ubicata in Corso Gelone quando ancora non esistevano tutti i palazzi e la strada stessa era l’ingresso alla città di Siracusa, per chi proveniva da Catania, interrotta da un passaggio a livello; ricordo le molte volte che insieme a mio cugino Claudio, figlio del proprietario della segheria, prendevamo ‘a prestito’ le biciclette degli operai che durante il giorno erano impegnati a lavorare e ce ne andavamo in giro per la città facendo attenzione di rientrare prima della pausa pranzo altrimenti sarebbero stati ‘sorci verdi’.

Un ricordo indelebile delle calde estati siracusane erano le Domeniche quando i miei decidevano, insieme ad altri nostri parenti, di andare al mare che si traduceva in una vera e propria spedizione; una possibilità era quella di andare alla plaia, una spiaggia vicino alle saline, ad un chilometro e mezzo circa dalla città seguendo la Via Elorina in direzione sud; qui ci andavamo spesso prima del 1960 ma poi si sparse la voce che i carrettieri all’alba portavano a lavare i loro asini, muli e cavalli e cosi i miei genitori non vollero più andarci mentre i ‘ricchi’ che avevano mezzi di trasporto andavano all’Arenella, a circa 8 km dalla città, dove vi era un lido attrezzato con bar ristorante e persino delle cabine.

Non ce lo potevamo permettere e così i miei optarono per il golfo di Santa Panagia a poco più di 2 km e mezzo dalla città in direzione nord dove però non c’era spiaggia ma solo una scogliera in una piccola baia rocciosa.

Partivamo la mattina verso le ore sette, carichi di sporte e borsoni di tutte le dimensioni, dove stavano intrappolate viveri di tutti i generi, pasta al forno, caponata frittate, cotolette alla milanesse, pane, aranciate, coca cola senza contare gli ombrelloni e i bidoncini d’acqua potabile; attraversavamo distese di roccia piatta e a volte appuntita, cioè tutto il terreno su cui sorgerà in seguito il quartiere di Viale Zecchino e dopo circa due ore e mezza di marcia sotto il sole, arrivavamo all’insenatura di Santa Panagia, rimanendovi tutto il giorno fino al tardo pomeriggio. Doveva essere una giornata di puro divertimento ma in realtà si trasformava in una sfacchinata per gli adulti però noi bambini eravamo lo stesso felici e contenti.

Il sabato sera era invece dedicato alla passeggiata alla marina dove lungo i bastioni vi erano dei Bar le cui terrazze erano adorni con tavoli e sedie e dove dopo la passeggiata ci sedevamo per prendere una granita con la panna; c’erano anche i venditori di palloncini e i venditori di ‘sponse’ che altro non erano che fiori di gelsomini profumatissimi infilzati uno ad uno.

Una Domenica mattina io e mio fratello Claudio, entrambi chierichetti, dopo aver servito la Messa al Pantheon ce ne andammo verso Ortigia dove c’incontravamo abitualmente con altri ragazzini della nostra età e nell’attesa che ci ritrovassimo ci eravamo appoggiati in una macchina parcheggiata accanto al marciapiedi quando all’improvviso ricevetti un sonoro ceffone da un uomo il quale mi disse di spostarmi dalla sua macchina perché gliela stavamo rovinando; io mi misi naturalmente a piangere e ci allontanammo da quel luogo ma dopo aver percorso una cinquantina di metri m’imbattei in un cugino di mia madre che riconobbi in quanto veniva spesso a casa nostra, accompagnato dalla sua famiglia per una visita di cortesia alla nonna Barca.

Anche lui mi riconobbe e mi chiese perché piangevo ed io gli raccontai il fatto e mi chiese anche se per caso era nei dintorni c’era ancora il tizio che mi aveva dato la sberla ed eventualmente indicarglielo, cosa che feci subito in quanto il tipo era ancora in zona e stava discutendo con altri sette o otto persone; il ‘cugino’ mi prese per un braccio e mi portò davanti al tipo dopodiché mi disse imperiosamente di sputargli in faccia e siccome tentennavo per la paura di prendere un altro ceffone, il ‘cugino’ mi sgridò e lo dovetti fare.

Il tipo non reagì, rimase col capo chino mentre gli altri facenti parte del gruppetto si allontanarono alla chetichella mentre il ‘il cugino’ lo apostrofava con epiteti irripetibili; molto tempo dopo, quasi in età adulta seppi chi era veramente ‘il cugino’ che nel frattempo era morto.

Mio Nonno Concetto faceva il cocchiere e sostava normalmente in Piazza Stazione nell’attesa che qualche cliente salisse a bordo ed io lo raggiungevo spesso durante le ore pomeridiane, poiché mi divertivo tantissimo in quanto mi sedevo accanto a lui e qualche volta durante ‘le corse’ il nonno mi cedeva le redini e mi dava i consigli come guidare il cavallo ed io mi sentivo importante perché avevo l’impressione di essere io ‘u gnuri’ (il cocchiere)

Quello che mi piaceva di più era il momento di ‘spaiare’ cioè sistemare il cavallo per la notte e così prima del tramonto e all’ora che il nonno decideva ci avviavamo verso la stalla con me seduto in cassetta e con le redini in mano; la stalla si trovava al centro di una campagna tutta coltivata con basilico, prezzemolo, menta, insalata, carciofi e finocchi; oggi questa stalla e la campagna attorno non esistono più ed al loro posto vi è la centralissima Piazza Adda.

Una volta arrivati sul posto il nonno con tanta pazienza e amore si occupava del suo cavallo; lo liberava dal bardo e dalle redini, gli sistemava la paglia per la notte, riempiendo d’acqua un gran contenitore ed una volta fatto tutto questo c’incamminavamo a piedi verso casa.

Agli inizi di Giugno, una volta chiusa la scuola e non avendo compiti da assolvere uscivo di casa verso le ore nove e me ne andavo in giro per la città durante tutta la mattinata, rientrando all’ora di pranzo, intorno alle 12,30 in quanto mio padre teneva tantissimo che fossimo seduti a tavola tutti insieme per cui la mattina percorrevo le stradine e i cortili di Ortigia del quartiere Graziella oppure mi spingevo fino al quartiere della Giudecca, ma non arrivavo quasi mai fino al Castello poiché troppo distante da casa mia, ed il pomeriggio quasi sempre al mare.

A volte curiosavo nelle strade del quartiere della Borgata attorno alla Piazza Santa Lucia ma altre volte mi spingevo in Via Torino o la Via Riviera Dionisio il Grande che costeggiava il mare e dove nella parte alta vi era ‘a rutta e ciavuli’ cioè una serie di grotte in parte naturali ed in parte scavate dall’uomo nel corso dei secoli e lambite dal mare, la cui creazione per la parte scavata, sembra risalga addirittura al tempo della persecuzione dei Cristiani ma che erano servite nei secoli successivi, probabilmente come nascondiglio.

Le grotte erano molto profonde e tante leggende si raccontavano su queste grotte come per esempio quella che riguardava un maestro di scuola che vi si era addentrato insieme alla sua scolaresca e che non aveva più fatto ritorno perdendosi nell’intrigato labirinto e mai più ritrovato; essendo queste grotte molto profonde ed in parte inesplorate, la diceria popolare attribuiva a Santa Lucia il percorso da lei preferito per raggiungere la città di Catania dove incontrava la cugina Agata.

Io frequentavo la costa della ‘Rutta e ciavuli’ perché il mare antistante si prestava bene per imparare a nuotare poiché in mezzo alle rocce piatte vi era un bacino d’acqua poco profondo che assomigliava ad una piscina ed è proprio lì che imparai a nuotare insieme a Turuzzo, un ragazzino della mia stessa età e fu proprio lui che mi convinse ad entrare nelle grotte per semplice curiosità; una mattina d’estate, armati di torcia e di corda cominciammo ad inoltrarci in una delle gallerie camminando piano e guardando bene dove mettevamo i piedi ma man mano che entravamo, sebbene fossimo in costume da bagno, cominciavamo a sudare forse per la tensione o forse per la paura del buio. Ad un certo punto notammo a terra un ‘buco’ che illuminammo con la torcia, che tra l’altro stava iniziando ad esaurirsi ma riuscimmo lo stesso a vedere dentro e grande fu la paura che ci assalì in quanto capimmo che il ‘buco’ dava su un’altra galleria il cui piano di calpestìo era a circa 3 o 4 metri più in basso; rimanemmo pietrificati e in un attimo perdemmo la concezione del tempo, quindi pian piano abbiamo fatto dietro front facendo a ritroso lo stesso cammino e quando notammo il chiarore della luce, arrancammo il passo e scoprimmo che erano trascorse circa tre ore da quando eravamo entrati.

Molti anni dopo quando ormai ci eravamo persi di vista seppi dalla stampa che il mio amico d’infanzia, Turuzzo era stato assassinato dalla criminalità per essersi rifiutato di pagare il ‘pizzo’ sulla sua attività o almeno così si disse.

Non ritornai mai più in quel luogo neanche per fare il bagno, anche perché

una volta imparato bene a nuotare non frequentai più quella zona, in quanto abitando poco lontano dal porto preferivo fare il bagno vicino casa mia e non appena chiudevano le scuole agli inizi di Giugno quasi ogni giorno, appena finivo di pranzare uscivo di casa accompagnato dalle solite raccomandazioni di mia madre che mi ricordava di non tuffarmi subito in mare ma di aspettare che la digestione finisse il suo ciclo e questo significava attendere due ore; fiato sprecato poiché quando raggiungevo i miei amici questi erano già tutti in acqua e così finivo col tuffarmi in mare anch’io, dimenticando le raccomandazioni di mia madre, ma era l’età dell’incoscienza.

A quei tempi cioè agli inizi degli anni sessanta il Porto di Siracusa era frequentato da ‘bastimenti’ quasi tutti in legno che trasportavano materiali diversi e quasi tutti ormeggiati alle panchine del molo; noi ragazzini salivamo a bordo arrampicandoci sulle corde degli ormeggi, cosi come vedevamo fare nei films dei pirati ed una volta sulla prua ci tuffavamo in acqua a testa in giù.

Ricordo un giorno che il colore del mare era verdastro, mi tuffai testa in giù dalla prua di un bastimento come ero solito fare, ma quando arrivai in acqua andai a cozzare la testa su qualcosa di molto duro che non poteva essere il fondale marino poiché conoscevo bene quel tratto di mare; grande fu lo stupore quando vidi emergere dal mare una grossa tartaruga marina il cui carapace doveva misurare non meno di 60 o 50 centimetri di diametro.

Fui preso dalla paura poiché mi resi conto che se la testuggine si fosse trovata cinquanta centimetri più in alto, mi sarei sicuramente fracassato il cranio e nessuno avrebbe capito la dinamica dell’incidente; il mio Angelo protettore era intervenuto.

In estate, restavo poco a casa anche perché a quell’epoca a casa non c’era molto da fare in quanto non avevamo la televisione, non esistevano i computers, neanche videogiochi e tantomeno cellulari per cui restavamo tutto il giorno a giocare sulla strada la quale c’insegnava ogni giorno qualcosa in più per cui uscire di casa significava libertà, ma non ero il solo a vivere in strada poiché tutti i ragazzini della mia età facevano più o meno la stessa cosa.

Dopo la bocciatura al secondo anno della Scuola Media Paolo Orsi, dovetti proseguire gli studi in un Istituto di Avviamento Professionale ad indirizzo Commerciale, ubicato in Ortigia, in Via Logoteta, all’angolo con Via Roma da una parte e con la Via Giudecca, dall’altra; questo Istituto era frequentato da tutti gli studenti ‘asinelli’, in buona parte estromessi dalla Scuola Media Statale come me e di cui ricordo il Preside Barra, basso di statura, capelli foltissimi e nerissimi e due sopracciglie enormi, che incuteva paura solo a guardarlo.

La novità in questa scuola era il fatto che le classi erano miste ed In ogni caso riuscii lo stesso ad ottenere, sebbene a malapena, il titolo della Scuola Media dell’Obbligo, non senza peripezie e raccomandazioni varie, che mi permise d’iscrivermi all’Istituto Tecnico Statale per Geometri ‘Filippo Iuvara’ di Siracusa.

La scelta di questo Istituto fu dettata dal fatto che sul territorio siracusano, essendo stato prescelto negli anni cinquanta quale luogo d’industrializzazione, furono create delle raffinerie di petrolio e soprattutto un enorme complesso petrolchimico che nei primi anni ’70 produsse circa 25.000 unità lavorative, comprensivo dell’indotto.

A dire il vero questa industrializzazione ci colse impreparati soprattutto nella formazione e fornitura di manodopera specializzata, per cui dalle Regioni del Nord Italia molti giovani periti industriali, chimici ed elettromeccanici si riversarono sul nostro territorio, sconvolgendo abitudini alimentari, tradizioni, inflessioni dialettali, favorendo così il commercio e l’economia locale, tanto da essere definito un vero e proprio ‘miracolo economico’.

La conseguenza di questo ‘boom’ economico fece si che la città s’ingrandisse a vista d’occhio, sviluppando soprattutto il settore dell’edilizia; su tutta la provincia di Siracusa si era quasi estinta la disoccupazione e la gente rassicurata da un posto di lavoro fisso nella zona industriale che nel frattempo si era sviluppata a dismisura, cominciò a pensare all’acquisto di una casa e così la città che fino ad allora era stata relegata in Ortigia e un po’ alla Borgata si spostò gradualmente verso la parte alta facendo nascere quartieri come Grottasanta, Viale Zecchino e Santa Panagìa.

Con lo sviluppo dell’edilizia, per non ripetere l’errore di ritrovarsi senza manodopera specializzata, molti giovani siracusani, ma anche giovani provenienti dalla provincia, s’iscrissero all’Istituto per Geometri ed anch’io cavalcando l’onda dell’edilizia, mi iscrissi in questo Istituto; l’Istituto per Geometri era ubicato in quello che una volta era chiamato ‘Collegio Santa Maria’ in Viale Teocrito ed era gestito da religiosi capeggiati da un frate, certo Padre Ballarino.

Nel 1967 ci trasferimmo in Viale Teracati 132; i miei genitori, i miei fratelli e l’immancabile Nonna Barca, al quinto piano di un palazzo di nuova costruzione detto ‘il palazzo di Frontini’

Nei primi giorni del primo anno scolastico, quando normalmente i professori si presentano nelle varie classi per fare conoscenza con gli alunni, m’imbattei nell’Insegnante di Educazione fisica, il Prof. Piz il quale poverino era balbuziente e non appena cominciò a parlare, non so perché, scoppiai in una fragorosa e irrefrenabile risata e lui avvicinandosi a me senza scomporsi, m’appioppò un sonoro ceffone ma che non mi fece per niente desistere dal ridere e a questo punto fui messo alla porta; in seguito diventammo grandi amici e per lungo tempo ancora, anche ben oltre il periodo scolastico.

I primi due anni li superai senza difficoltà, ma in seguito cominciai a capire che il tipo di studi che avevo intrapreso mal si adattava al mio carattere; a me piaceva legger e libri di Storia, Geografia, Letteratura ed ero attratto soprattutto dalle lingue straniere; era stato mio padre a trasmettermi l’amore per la lettura e malgrado non fosse un ‘letterato’ amava leggere moltissimo tanto che a casa avevamo una piccola biblioteca a cui davo spesso delle sbirciatine che nulla avevano a che fare con i miei studi regolari.

Tra tutti gli insegnanti preferivo solo il Prof Fontana che ci insegnava Italiano il quale godeva della mia simpatia poiché quando ci leggeva i brani del romanzo i Promessi Sposi, io ne rimanevo incantato in quanto aggiungeva del suo, senza però stravolgerne il contenuto e grazie a lui, ancora oggi ricordo perfettamente i vari passaggi del romanzo; intanto giunsi al terzo anno e fu proprio in questo periodo che preso dalla svogliatezza, cominciai a marinare la scuola rifugiandomi spesso al Parco Archeologico della Neapoli, poco frequentato dai miei concittadini per cui vi erano rare probabilità d’incontrare qualcuno che mi conoscesse e che potesse riferirlo alla mia famiglia.

Quell’anno fui bocciato con molto disappunto dei miei genitori che m’imploravano di studiare per un futuro migliore; alla chiusura dell’anno scolastico cominciai a frequentare il mare cioè iniziai a fare pesca subacquea in apnea, avendo raccolto parsimoniosamente alcune migliaia di lire che mi guadagnavo facendo saltuariamente il ‘vice cameriere’ nei locali pubblici, che mi servirono per acquistare l’attrezzatura necessaria cioè pinne, fucile ed occhiali.

Nel frattempo accettavo qualsiasi lavoretto c’era da fare in città, come per esempio lavare i vetri delle auto nelle stazioni di servizio oppure scaricare i bastimenti che trasportavano legname ancorati nelle panchine del molo oppure ancora scaricare camions colmi di angurie, meloni o cassette di frutta, insomma cercavo di racimolare la paghetta che i miei genitori non potevano darmi.

Intanto praticando la pesca subacquea i soldini non mi mancavano poiché il pescato lo rivendevo ai commercianti di pesce fresco e progredendo in questa attività cominciai a frequentare un gruppetto di esperti subacquei, di una decina d’anni più vecchi di me i quali mi adottarono divenendo così la loro ‘mascotte’; all’occorrenza questi amici si dedicavano al recupero in mare di reperti archeologici, generalmente anfore greche o romane di cui i fondali delle coste siracusane abbondavano grazie agli antichi natanti colati a picco per ragioni diversi.

All’epoca vi era un gran commercio di queste anfore ed altri oggetti che venivano rinvenuti occasionalmente sia in mare che in alcune aree del territorio circostante e sebbene questo ‘traffico’ fosse un reato, Siracusa contava una moltitudine di collezionisti disposti ad acquistare a qualsiasi ‘prezzo’ questi oggetti antichi.

Ma questi ‘nuovi’ amici non erano dei ‘fannulloni perditempo’ anzi erano tutti ben inseriti nel mondo del lavoro; Cesare era impiegato al Catasto, Concetto era un vigile sanitario, Giovanni era direttore amministrativo in un Istituto Professionale, Alfonso era un imprenditore di materiale edile, Melchiorre era un ex finanziere ben inserito nel campo assicurativo, Agostino insegnava in una scuola professionale, Sebastiano lavorava alla zona industriale di Augusta e Nicodemo era proprietario di una discoteca di successo ed era anche proprietario di una barca da pesca in legno di 11 metri, motore entrobordo con la quale uscivamo per le battute di pesca subacquea..

Conoscere questi amici mi ha molto aiutato nella vita, poiché ho appreso molto da loro in quanto erano equilibrati, di buone maniere e riluttanti verso ogni forma di delinquenza che in quegli anni iniziava ad organizzarsi in città; ciò che mi piaceva molto delle loro abitudini era il fatto che due o tre volte a settimana ed in estate anche di più, frequentavamo la sera le bettole dove si mangiava bene e si pagava poco, ma io ero sempre loro ospite perché la mascotte e poi perché non

Avevo ancora un lavoro.

Amanti della vita, erano tutti di buona cultura, conoscevano la storia della propria città, contrariamente a tanti nostri concittadini ‘colti’; frequentare le bettole era un modo per stare insieme davanti ad un buon bicchiere di vino rosso di Pachino e dove si discuteva di tutto, di pesca, di archeologia, di storia e di monumenti, ognuno di loro parlava discretamente una qualche lingua straniera, ma l’argomento principe era sulle belle donne straniere che i miei amici riuscivano ad incantare da buoni ‘pappagalli’ e ciò facendo si erano guadagnati la nomea di ‘latin lovers’ e in città erano conosciuti con l’appellativo di ‘selvaggi’ per il fatto che le straniere li consideravano poco evoluti e loro tenevano tanto ad autodefinirsi selvaggi quasi come un segno distintivo di appartenenza; inoltre erano tutti dei bei ragazzi alti, asciutti e muscolosi e le bellissime straniere che frequentavano il Camping Minareto sul Plemmirio se ne innamoravano a tal punto che non di rado alcune ritornavano a Siracusa l’anno successivo ed ancora quello dopo e qualcuna trovò anche marito.

Siamo stati dei veri amici sinceri per lunghissimo tempo, superando di poco i sessantanni di amicizia, naturalmente non c’è rimasto quasi più nessuno tranne me, il solo testimone di un passato da favola che non esiste più; io ero l’ultimo dei ‘selvaggi’ che al loro cospetto sembravo un nanerottolo ma nessuno faceva caso alla mia bassa statura, neanche le belle straniere per cui non ho mai sentito il peso del complesso del ‘brutto’.

Il mio primo ‘amore’ in assoluto fu Jacqueline, una francesina giovane e carina di Angers che non ho mai dimenticato proprio perché fu il mio debutto nel mondo dei ‘latin lovers’.

La conobbi un giorno d’estate nel 1968 nell’allora spiaggetta di Carrozza accanto al Camping Minareto, ed avevo da poco compiuto i 18 anni e quella mattina ero steso al sole vicino al mio amico Alfredo De Spirito purtroppo deceduto qualche anno fa; verso le 11,00 arrivarono due belle ragazze bionde che si sdraiarono poco distanti da noi e non fu difficile iniziare ad ‘attaccare bottoni’ malgrado Alfredo conoscesse solo qualche parola d’inglese mentre io ero avvantaggiato con il mio francese maccheronico.

Il mio amico Alfredo era di famiglia benestante ed aveva 2 auto di cui una era un lussuoso ‘coupé’ 2600 dell’Alfa Romeo così le invitammo ad uscire la sera; furono 15 giorni di bella vita spensierata, sempre in giro con l’auto, visitando i luoghi più belli della nostra Sicilia, Noto, Palazzolo, la Riviera dei Ciclopi e Taormina ma ricordo anche il giorno della loro partenza, dove tra lacrime, abbracci e promesse di rivederci, ci separammo….. e non la rividi mai più.

Ritornai altre volte in quella spiaggetta che raggiungevo prendendo un bus urbano alle ore 7,30 che passava dai giardini pubblici, poco distanti da casa mia insieme al mio amico Leo, altro aspirante ‘latin lover’; un giorno arrivando in spiaggia di prima mattina vidi una bellissima signora stesa al sole con gli occhi chiusi che si spalancarono non appena cominciai a sistemare il mio telo sulla sabbia e dopo un attimo di convenevoli ci ritrovammo a scambiare delle frasi che in questi casi erano sempre le stesse, cioè da dove veniva o se le piaceva la vacanza e l’immancabile come ti chiami.

Mi disse di chiamarsi Simona e di provenire dal nord della Francia di professione infermiera e mentre parlavamo si avvicinò un ragazzo che evidentemente conosceva già, parlandole in inglese che io interpretai essere il fidanzato o il marito ma dopo capii che non era né l’uno e nell’altro, infatti dopo qualche minuto sparì dalla nostra vista e così ebbi modo di invitarla per la sera a bere qualcosa nel vicino ‘dancing l’Asteria bleu’ nel quale non avevo mai messo piede ma ne avevo sentito parlare; appuntamento alle 21,00 davanti all’ingresso del Villaggio turistico il ‘Minareto’ poco distante dalla spiaggetta ma distante circa 8 km dalla città e quindi ora il problema era quello di come arrivare al Villaggio, poiché l’ultimo bus urbano in partenza da Siracusa era solo intorno alle ore 15,00.

Trascorsi tutto il pomeriggio a pensare come fare per raggiungere il Villaggio ma poi dovevo rientrare a Siracusa, insomma un rompicapo; alla fine trovai un mio amico che mi prestò la sua bicicletta e così arrivai puntuale all’appuntamento.

Davanti l’ingresso del Villaggio c’erano decine di auto parcheggiate i cui proprietari erano ‘latin lovers’ professionisti che durante il giorno, con i loro motoscafi o barche a motore rimorchiavano le turiste e poi la sera le aspettavano per portarle in giro e man mano che le ragazze uscivano, il tempo di salire in auto e andavano via; la strada non era ben illuminata anzi non era illuminata per niente, per cui vidi una bella donna con abito lungo di color nero, camminare lentamente lungo la strada ma non capii che si trattava proprio di Simona.

Ad un certo punto ebbi un ‘flash’ e mi avvicinai a lei lentamente in sella alla bicicletta e la chiamai per nome confermandomi che era proprio lei; per assicurarsi che fossi proprio io, mi puntò la sua lampadina tascabile in viso, così non vidi un sasso per terra che urtai con la ruota della bicicletta e caddi su una pianta di fichidindia.

Il dolore fu atroce e non piansi poiché mi sarei vergognato farlo davanti ad una donna, mentre lei rideva in quanto non sapeva cose significasse cadere su una pianta spinosa; feci buon viso a cattiva sorte e c’incamminammo a piedi verso la vicina Asteria Bleu, distante circa 1 km cercando di scambiare qualche parola lungo il tragitto.

Una volta arrivati misi la bicicletta nel parcheggio delle auto avendo cura di chiuderla con la chiave che ne bloccava la ruota; ci siamo seduti mentre la musica dal vivo ci allietava ed ebbi fortunatamente il tempo di chiedere discretamente al cameriere il costo di una semplice Coca Cola che all’epoca in quel luogo era di 800 lire ed io avevo in tasca solo 1.000 lire.

Mentre tergiversavo qualcuno venne ad invitare Simona per un ballo e nella confusione non la vidi più, ma vidi quel ragazzo che la mattina aveva parlato con lei sulla spiaggetta e scoprii che era siracusano e si chiamava Ezio; in seguito lo incontrai altre volte e diventammo amici e ci frequentiamo ancora oggi.

Dato che avevo perso di vista Simona e sicuramente lei aveva capito il bambino che c’era in me, approfittai per defilarmi ed andai a recuperare la bicicletta; la mia disperazione fu grande quando non trovai più la chiave per aprire il lucchetto e cosi dovetti rientrare a piedi in città con la ruota posteriore sollevata poiché bloccata, senza parlare dei cani randagi che all’altezza dei Pantanelli mi avevano assalito, insomma una serataccia da dimenticare.

Intanto nel mese di Settembre del 1968 ritornai a scuola da ripetente mentre l’Europa intera fremeva dietro la spinta di un’imminente rivoluzione sociale che avrebbe cambiato il pensiero di noi europei e non solo; gli echi lontane delle ‘manif’ parigine giungevano anche dalle nostre parti e noi studenti siracusani unitamente alle donne e agli operai di ogni settore scioperavamo gridando tutti in coro ‘libertà’ senza forse capirne pienamente il significato.

Frattanto sin dagli inizi degli anni sessanta il turismo d’oltralpe, baciava timidamente la nostra città; non esisteva ancora il turismo ‘di massa’ per cui questo turismo ‘d’élite’, era formato in buona parte da stranieri generalmente di buona cultura che in linea di massima erano a conoscenza della storia e dell’esistenza dei principali monumenti, ma non disdegnavano di curiosare per le stradine del centro storico e a volte soffermarsi a fotografare i cortiletti della Graziella o della Giudecca; i francesi venivano in Sicilia a frotte ed il turismo cominciava a rappresentare per me un’irrefrenabile attrazione che mi faceva sognare, pensando soprattutto ai luoghi di origine di tutta questa gente che armata di apparecchi fotografici girovagava per tutti gli angoli della mia Siracusa.

A scuola studiavo svogliatamente e così cominciai a marinare spesso la scuola, soprattutto quando vi erano delle belle giornate assolate e gira e rigira, come tanti altri studenti con poca voglia di studiare come me, si andava a finire al Parco Archeologico della Neapoli, che allora era completamente aperto al pubblico ad ingresso gratuito almeno per quanto riguardava l’Anfiteatro romano e l’Ara di Ierone e fu così che andando spesso al Parco conobbi una triade di vecchi ‘ciceroni’ tutti già avanti negli anni; vi era un certo Fucili di origini maltesi, un certo Calvi ex carabiniere, molto alto e robusto e una certa Gerda di origini tedesche che doveva odiare l’acqua ed il sapone.

Come era nelle abitudini dell’epoca, queste guide sostavano di fronte all’ingresso dell’Anfiteatro dove era ubicata l’Osteria del Sig. Cuccurullo e si proponevano ai turisti secondo le lingue parlate; Fucili parlava inglese, Calvi parlava un francese maccheronico e Gerda in tedesco poiché di madrelingua.

Allora non esistevano le tariffe, per cui dopo aver svolto il servizio di guida i ‘ciceroni’ si accontentavano di una mancia a discrezione del cliente, il che generava spesso discussioni e qualche volta perfino litigi, sopratutto quando la ‘mancia’ la si riteneva non congrua al servizio prestato.

Ognuno aveva una sua tecnica di accostamento; Fucili per esempio si esibiva col suo immancabile ombrello posto in equilibrio sulla punta della propria scarpa, attirando la curiosità dei turisti con i quali subitamente interloquiva dicendo loro che nel Parco c’erano tanti monumenti e che se loro lo desiderassero lui avrebbe potuto accompagnarli; Calvi invece li accostava con molto garbo e siccome era anche molto timido, pronunciava le frasi a metà quasi incomprensibile e cioè la frase nella sua testa era in fondo semplicissima : sono una guida, avete bisogno ? a causa della sua timidezza riusciva a dire solo l’ultima parola della frase, ‘bisogno ?’ e i turisti naturalmente non capivano, pensando forse alle toilettes.

Io rimanevo spesso nei dintorni del Parco osservando l’operato dei ‘ciceroni’ cercando di carpirne il ‘mestiere’ come la ‘tecnica di ‘aggancio’ del potenziale cliente, ma mi mancava la parte principale della professione stessa e cioè la conoscenza della storia della mia città e la storia dei monumenti, rendendomi conto al contempo che la conoscenza di una qualche lingua straniera era indispensabile, anche perché i visitatori erano quasi tutti stranieri mentre i turisti italiani erano quasi assenti; intanto continuavo a frequentare l’Istituto per Geometri, con scarsi risultati ma rendendomi conto al contempo che non studiare mi avrebbe precluso ogni possibilità d’inserimento nel settore turistico e fu così che cominciai a seguire gli studi con molta lena.

A questi ‘ciceroni’ in seguito se ne aggiunsero degli altri, il Prof. Zimmitti originario di Melilli, il Prof. Carbé originario di Avola ed il Prof. Maltese, un ‘ pied noir’ rientrato dalla Tunisia; a parte Zimmitti gli altri due avevano specifiche conoscenze nel settore turistico, avendo collaborato in passato con il Club Med, primo fra tutti gli Operatori Turistici che aprirono le strade del Turismo in Sicilia; l’incontro con il Prof Corrado Carbé, fu quello decisivo che stravolse completamente la mia vita, il mio modo di pensare ed agire.

Con Carbé, sebbene avesse l’età di mio padre, simpatizzammo subito, ed ogni volta che riusciva ad avere dei turisti mi aggregavo a lui e lo seguivo come un’ombra, immagazzinando nella mia memoria tutto ciò che potevo; con lui imparai a conoscere i ‘ruderi’ della mia città e sempre con lui imparai un po’ di francese insomma con lui mossi i primi passi nella professione di guida turistica.

Fu in questo periodo che fui preso da una gran voglia di studiare la storia della mia città e dei suoi monumenti che ho continuato a fare nel tempo e fino ai giorni nostri le mie letture preferite sono sempre gli argomenti che parlano della mia Sicilia sotto ogni aspetto storico o socio economico, dilapidando al contempo tutte le mie entrate nell’acquisto di libri ed enciclopedie varie

Intanto nello spazio antistante l’Anfiteatro parcheggiava in pianta stabile un Taxi, rigorosamente ‘abusivo’, condotto dal Sig. Zappulla, personaggio mite che in passato era stato cocchiere e proprietario di una carrozza trainata da un cavallo; anche lui attendeva che qualche turista fosse interessato ai suoi servizi e la sua specialità era di convincerli a visitare il Castello Eurialo, a circa 7 km dalla città, monumento poco visitato, allora come oggi e qualche volta mi chiamava per dare delle informazioni sul monumento che presentava come il ‘Castello di Archimede’.

A dire il vero mi ero quasi specializzato su questo monumento di cui conoscevo molto bene tutti i sotterranei e gli anfratti, ma non ne conoscevo veramente la storia, inventandomi all’occasione qualcosa di attinente con la storia siracusana, tirando in ballo personaggi universalmente conosciuti come Archimede o Dionigi.

In questo Castello però bisognava litigare qualche volta con il custode, di cui non ricordo il nome, il quale se ne era appropriato a tal punto che solo lui poteva dare informazioni all’interno dell’area archeologica e sebbene l’ingresso fosse gratuito, cacciava arrogantemente tutti coloro che come me davano informazioni ai turisti, ma per fortuna parlava a malapena un misto di siciliano e di italiano, per cui quei pochi turisti che ‘spiccicavano’ un po’ la nostra lingua, non riuscivano a capire nulla e di conseguenza non gli davano nessuna mancia.

Il Prof. Carbé profondo conoscitore dell’animo umano personalizzava le sue visite per cui una volta acquisiti i clienti, con la sua verve enfatica riusciva ad ammaliarli, portandoli in giro, nel caso avessero avuto più tempo a disposizione, per 1 o 2 giorni, consigliando loro cosa visitare e perfino cosa mangiare nelle poche Osterie del centro storico; molto spesso, quando i tempi lo permettevano faceva visitare il quartiere della Graziella, fatto di case sovrapposte in un labirinto di viuzze e di cortili interni dove troneggiava l’Osteria ‘da Pilluccio’ che proponeva uova sode, acciughe fritte anche del giorno prima, polpo bollito e condito con aglio, prezzemolo, olio d’oliva e limone, locale frequentato da pescatori e gente semplice mentre per la clientela più raffinata aveva dei separé di varie dimensioni ed amovibili, soprattutto se c’erano donne tra gli avventori, in tal modo gli spazi venivano chiusi creando delle vere e proprie camere chiuse, lontano da occhi indiscreti. Anche io quando divenni una guida feci ciò che avevo appreso dal Prof. Carbé, girando nel quartiere della Graziella, che allora era pulitissimo e fermandomi all’Osteria Pilluccio.

Il Prof. Carbé aveva le sue manìe e preferiva pranzare in tre Osterie: quella del Sig. Cuccurullo proprio di fronte all’ingresso dell’Anfiteatro, quella di Piazzale Marconi del Sig. Urso e quella del Sig. Pilluccio ubicata in una stradina del quartiere della Graziella in Ortigia.

Durante le vacanze estive tra una battuta di pesca subacquea in apnea ed una capatina al Parco Archeologico riuscivo a racimolare qualche soldino che servivano per il mio autofinanziamento invernale poiché i miei genitori non avevano la disponibilità economica per una paghetta.

Nei lunghi pomeriggi invernali seguivo il mio mentore Corrado Carbé, alla Biblioteca Alagoniana, dove consultavamo montagne di libroni che trattavano la storia e i monumenti del territorio siracusano; intanto mi ero fatto la nomea di guida turistica e in quelle poche volte che durante l’anno approdavano navi da crociera nel Porto Grande di Siracusa, il Sig. Mascellini, factotum dell’Agenzia di Viaggi Bozzanca di Siracusa, mi contattava affidandomi un gruppo di turisti francesi che ad onor del vero, avevano qualche difficoltà a capire il mio francese ma purtroppo a quei tempi non si trovavano facilmente giovani che avessero qualche nozione di lingua straniera.

Studiavo duro perché mezza giornata di lavoro veniva pagata ben 11.000 lire e non potevo permettermi di perderli quando uno stipendio medio mensile di un impiegato, in quel periodo era di circa 90.000 lire.

Di quegli anni ricordo bene che quando seguivo il Prof. Carbé col suo gruppo di turisti spesso venivamo circondati da un nugolo di bambini che apostrofandoci ‘mericani mericani’ con la mano tesa chiedevano ai turisti non soldi ma sigarette; appresi in seguito che erano gli adulti a spingere i ragazzini a fare questa richiesta in ricordo dell’invasione del 1943 quando i militari alleati distribuivano sigarette o tavolette di cioccolata ai siciliani ed è per questo che ci apostrofavano ‘mericani’;

Intanto l’anno scolastico 1969/70 stava per finire e gli esami di Stato erano vicini ma non vedevo l’ora che si arrivasse al dunque anche perché ero sicurissimo di ottenere il Diploma, in quanto negli ultimi mesi avevo studiato parecchio e dovevo a tutti i costi diplomarmi perché avevo in mente d’iscrivermi all’Università di Catania alla Facoltà di Lettere, in quanto la mia passione per le materie umanistiche, negli ultimi tempi era cresciuta in modo esponenziale e così facendo potevo realizzare il mio sogno.

Ero talmente sicuro di poter superare facilmente gli Esami di Stato che la sera precedente agli esami ero stato con Ciccio Bandiera ed altri 2 amici di cui non ricordo il nome a bighellonare a Taormina ed ero rientrato a casa intorno alle ore 06,00 del mattino e l’ingresso previsto per la prova scritta era programmato per le ore 08,30; riuscii ad ottenere la mia maturità ed anche un buon voto.

La prova orale prevista per qualche giorno dopo non fu delle migliori in quanto non seppi rispondere ad alcune domande che la Commissione mi pose, ma i professori che mi conoscevano bene lasciarono correre spostando gli argomenti in altri ambiti quali la pesca subacquea o il ritrovamento di frammenti di anfore antiche nei fondali della costa siracusana; i più interessati a questi argomenti erano il Prof.di Costruzioni, Ingegnere Boscarino, l’Avv. Piccione Prof di diritto, il Prof. Piz insegnante di Educazione fisica e l’Ing. Alì Prof. di Topografia.

Nel Luglio del 1970 riuscii finalmente a superare la Maturità; erano stati 6 anni di poca voglia e tanti sacrifici, ma fui contento soprattutto per i miei genitori, gente semplice ma dal cuore grande i quali si aspettavano che il loro figlio maggiore prendesse quel fatidico ‘pezzo di carta’; era il sogno dei miei genitori ma anche il sogno di tutti coloro che ritenevano ‘il pezzo di carta’ uno strumento validissimo per riscattare la loro condizione di classe operaia. Mio fratello Claudio non era più voluto andare a scuola già dall’età di 14 anni e preferì andare a lavorare con mio padre in segheria, lavoro duro ma poi fortunatamente all’età di 17 anni si arruolò nella Guardia di Finanza restandovi fino al pensionamento.

Appena diplomato m’iscrissi con mia grande gioia, alla Facoltà di Lettere e Filosofia Corso di lingue e letterature straniere moderne dell’Università di Catania e a Settembre cominciai a seguire le lezioni in Piazza Università; il sacrificio era enorme, poiché per seguire queste lezioni bisognava alzarsi alle 04,30 andare a piedi alla Stazione Centrale di Siracusa (non c’erano bus urbani a quell’ora) prendere alle 05,30 il treno Accelerato per Catania, (così si chiamava allora) anche perché era l’unico che il nostro abbonamento ferroviario ci permetteva di prendere e dopo un’ora e mezza di viaggio, tra interminabili soste e lunghe chiacchierate con lavoratori di ogni tipo, con un continuo saliscendi, arrivavamo alla Stazione Centrale di Catania.

Alle ore 07,00 la Stazione di Catania era super affollata da gente in partenza altri in arrivo, da altri studenti che provenivano da province diverse, da una quantità di venditori al nero di ogni sorta di articoli, da ladri e borsaioli, insomma da ogni genere di individui; 1 chilometro ancora a piedi e si arrivava in Piazza Università e si attendeva l’ingresso alle lezioni previsto per le ore 08,30.

Una volta finite le lezioni bisognava rientrare a casa quindi andare a piedi fino alla Stazione, attendere l’Accelerato per Siracusa, quando non era in ritardo partiva alle 14,30 impiegando sempre 1 ora e mezza e così alle 16,00 circa eravamo alla Stazione di Siracusa e a piedi (2 chilometri) si rientrava a casa, con una fama da lupi.

Naturalmente tutte queste privazioni riguardavano le famiglie più indigenti che per amore verso i loro figli si sacrificavano fino all’inverosimile; i miei genitori non potevano sovvenzionare i miei studi anche perché essendo una famiglia monoreddito eravamo in sei a viverci, mia nonna, i miei due fratelli e miei genitori.

Intanto tramite il Prof. Carbé fui chiamato dall’Agenzia Bozzanca per un servizio di guida turistica da effettuare per conto di un’enorme nave da Crociera; eravamo una trentina di guide abusive e non, provenienti da tutta la Sicilia orientale e nell’attesa che arrivassero i turisti incontrai due miei amici d’infanzia Gino Malandrino e Silvio Modica; anche questo fu un incontro magico poiché cambiò per sempre la mia vita e come ripeteva spesso Padre Ferlauto Deus ex machina del Centro Ospedaliero di Troina che ho avuto l’onore e la fortuna di conoscerlo personalmente: nulla accade per caso.

Gino Malandrino di qualche anno più vecchio di me, era il figlio della Signora che ci insegnava il Catechismo nella Chiesa del Pantheon a cui io appartenevo; donna religiosissima, mite ed affettuosa con noi bambini, madre di tre figli maschi di cui Gino era il più grande, avviato per volere dei genitori alla carriera ecclesiastica, per questo trasferitosi a Roma dove studiò in un seminario per diventare prete, con grande gioia della madre.

Purtroppo poco prima di prendere i voti Gino conobbe una turista francese, di qualche anno più vecchia di lui che lo convinse, (con grande delusione della madre) ad abbandonare la tonaca ed andare a vivere con lei a Parigi; il giorno che c’incontrammo alla Marina Gino era rientrato da qualche giorno da Parigi, per vedere la madre che nel frattempo si era ammalata ed in questo lasso di tempo aveva saputo da Silvio della nave da Crociera e proponendosi a Bozzanca fu subito reclutato.

Silvio Modica anche lui vecchia mia conoscenza si era diplomato all’Istituto di Ragioneria di Siracusa e si era iscritto svogliatamente l’anno prima all’Università di Catania, alla Facoltà di Economia e Commercio ma non aveva dato nessun esame, però aveva qualche nozione di lingua francese, mentre Gino lo parlava bene in quanto residente già da due anni a Parigi.

Gino ci raccontò della sua vita e di come era finito in Francia ma allo stesso tempo ci decantava le bellezze di Parigi e il modo di vivere la vita molto diverso della nostra provinciale Siracusa e ci disse pure che trasferirsi a Parigi non era poi così difficile, in quanto a studiare era tutt’altra cosa; Silvio ed io ascoltavamo come incantati ed eravamo pieni di euforia, tempestando nello stesso tempo di domande Gino il quale aveva una risposta per tutto, il che ci rassicurava molto.

Da quel momento in poi io e Silvio ci frequentammo assiduamente tenendoci in contatto anche con Gino che nel frattempo era rientrato in Francia; per dormire ci disse che poteva ospitarci lui in casa della sua compagna mentre per ‘l’argent de poche’ ci avrebbe trovato lavoro in un qualche ristorante italiano di sua conoscenza.

In quegli anni la maggiore età era fissata in Italia a 21 anni per cui non potevo recarmi all’estero senza il consenso dei miei genitori, che ottenni facilmente attraverso una semplice autocertificazione e così intorno al 15 Ottobre io e Silvio partimmo in treno per Parigi impiegando circa 36 ore di viaggio ed arrivando di buon mattino in una delle stazioni più importanti di Parigi.

Gino come promesso ci venne a prendere alla Gare de Lyon e ci condusse in casa della sua amica francese ma come era prevedibile neanche dopo una settimana, la donna ci mise tutti alla porta Gino compreso; Gino riuscì però a ricucire il rapporto con la sua amica ma io e Silvio rimanemmo fuori e grazie a un gruppetto di emigrati siracusani che avevamo conosciuto nel quartiere latino, trovammo alloggio in un alberghetto poco costoso nell’ XI Arrondissement.

A questo punto bisognava trovare urgentemente un lavoro; Silvio fortunatamente conobbe un italiano fabbricante di scarpe il quale gli propose di fare il rappresentante con uno stipendio fisso ed in più una ‘royalty’ sul fatturato che riusciva a fare, ottenendo in tal modo un discreto successo.

Gino conobbe un altro italiano il quale orbitava nel mondo sindacale e che lo inserì nel Sindacato degli edili italiani in Francia , trasferendosi a Macon città del sud della Francia, dove ebbe modo di scalare le gerarchie sindacali ottenendo importanti riconoscimenti.

Io invece trovai lavoro presso un ristorante italiano, Pizza Pino nel Quartiere latino in Rue de la Huchette, gestito da un certo Gianfranco originario di Fano, dove iniziai a lavorare facendo le pulizie al mattino molto presto, ma resistetti solo una settimana ed ero pronto a cercare lavoro altrove quando il ‘patron’ mi propose di lavorare al bar; fui felice di questa mia nuova mansione dove grazie alle mance guadagnavo abbastanza per pagarmi l’hotel o quant’altro.

Ricordo che un giorno, agli inizi del mese di Novembre il quartiere latino fu invaso da forze ingenti di polizia e dalla Gendarmerie, c’erano poliziotti dappertutto, anche sui tetti dei palazzi vi erano i tiratori scelti; seppi poi che tutte quelle misure di sicurezza erano per i funerali di Charles De Gaulle ex Presidente della Repubblica Francese che si svolgevano nella Cattedrale di Notre Dame.

In quell’occasione mi ricordo che stavo attraversando a piedi una strada dove c’era un’ alta concentrazione di poliziotti ed uno di loro gridò nella mia direzione che bisognava fare un giro poiché la strada era bloccata; io ubbidii subitamente mentre a qualche metro dietro di me avanzava un altro ragazzo che continuò in direzione dei poliziotti senza dare ascolto all’intimazione del gendarme e quando gli fu vicino il gendarme gli chiese semplicemente ‘parlez vous francais’ e il ragazzo rispose di sì e a questo punto il gendarme senza esitazione gli assestò un colpo di manganello in testa che lo fece stramazzare a terra. Imparai subito la lezione.

Intanto con il mio amico Silvio c’informammo in quale Università parigina potevamo iscriverci e dopo aver vagato in lungo ed in largo e chiesto a destra e a manca, Silvio s’iscrisse alla Faculté des Sciences, non molto distante dal Quartiere Latino mentre io m’iscrissi alla Faculté Experimentale de Paris VIII a Vincennes poco fuori Parigi; per iscriversi all’Università in Francia tutti gli studenti stranieri dovevano sostenere un esame di lingua francese, scritto e orale per capire il livello di conoscenza della lingua, basata su 6 livelli di cui i primi tre non davano accesso all’iscrizione ma solo a cominciare dal quarto livello.

Fortunatamente sia io che Silvio superammo l’esame, ottenendo anche il permesso di soggiorno e la carta d’identità francese; a Vincennes la presenza fisica non era obbligatoria alle lezioni e si ottenevano i punteggi anche con corsi o lezioni di altri istituti che niente avevano a che fare con la Facoltà.

Per esempio si poteva seguire un’altra materia come il Teatro o il cinema e alla fine ottenere le UV (unità di valore) l’equivalente dei nostri crediti che accumulandosi facevano progredire lo studente; altro fatto curioso fu che malgrado fosse il mese di Novembre, nel cortile interno della Facoltà le studentesse si ‘abbronzavano’ con i seni nudi e la cosa mi piaceva parecchio.

Andavo all’Università a giorni alterni, ma anche qua era molto difficile coniugare gli studi ed il lavoro e così a Gennaio pensai di rientrare a Siracusa malgrado fossi sempre entusiasta del mio soggiorno francese e intanto avevo perso di vista i due miei amici siracusani; un pomeriggio, qualche giorno prima del mio rientro in Sicilia, proprio il mio ultimo giorno di lavoro al Ristorante all’ora di pranzo vi fu un principio d’incendio per cui clienti e personale scappammo tutti fuori dal locale ed io nella confusione che ne seguì investii un signore che transitava in quel momento da quella strada.

Grande fu il mio stupore quando mi accorsi che quel signore non era altro che un mio amico e concittadino, Pinello De Luca, peraltro conosciuto a Siracusa come ottimo pizzaiolo che aveva lavorato in città in uno dei locali più alla moda, il quale si trovava a Parigi per curiosare nel campo della ristorazione ed eventualmente trovare lavoro; nei giorni successivi lo rividi e lo accompagnai in giro per Parigi ma io avevo già deciso di rientrare a Siracusa ed acquistai il biglietto del treno Paris Gare de Lyon/Siracusa.

Il giorno prima di partire per la Sicilia, mentre passeggiavo con il mio amico Pinello sui Grands Boulevards proprio all’altezza dell’Opera, un cagnolino, tenuto al guinzaglio da una bellissima donna elegantemente vestita, cominciò ad abbaiare incomprensibilmente nella mia direzione, tanto che cercai di allontanarmi quanto più possibile, ma il cagnolino sembrava non mollare e la padroncina si scusò per l’atteggiamento dell’animale; fu una conversazione gradevole dove io raccontai un po’ di me e lei raccontò un po’ di sé, così appresi che lei era una ballerina di secondo piano del Teatro Opera e chiacchierando camminammo per circa due ore mentre il cagnolino si era zittito, segno evidente che mi aveva accettato ed anche la sua padrona.

Ad un certo punto lei si fermò davanti ad un portone dicendomi che lei abitava proprio là e che sarebbe mancata cinque minuti per lasciare il cagnolino e sarebbe ritornata come in effetti fece; tralasciando i particolari passammo la notte insieme ed anche parte della mattinata ed inoltre fu cosi gentile che volle accompagnarmi in stazione dove mi aspettava un lunghissimo treno direzione Siracusa.

Io con le mie due valige seguivo lei che con il mio biglietto in mano cercava il numero della carrozza e del posto prenotato; finalmente trovata la carrozza vi salii, sistemai le valige e neanche il tempo di abbracciarci e salutarci che il treno si mise in moto e cominciò a scivolare sulle rotaie; pensai che una volta arrivato a Siracusa le avrei telefonato.

Dopo circa due ore di viaggio passò il controllore il quale chiese a tutti il biglietto che io non trovai nelle mie tasche che girai e rigirai mille volte senza trovare il mio biglietto; il controllore mi disse di cercare meglio con calma e che sarebbe passato una mezz’ora dopo, il tempo di fare tutto il giro del treno.

Quando ritornò il controllore, del mio biglietto nemmeno l’ombra ed il poveretto visibilmente imbarazzato mi disse che dovevo scendere alla prossima fermata del treno, perché questo era il regolamento o pagare un nuovo biglietto ma io avevo in tasca pochi spiccioli; della prossima fermata io sconoscevo il nome ed il luogo in cui mi trovavo, in più era quasi mezzanotte ma armatomi di pazienza e soprattutto di coraggio, una volta arrivato cominciai a scendere le valige quando ad un tratto arrivò il controllore correndo dicendomi che il mio biglietto era stato trovato….. volevo piangere dalla gioia.

Era successo che il biglietto, quando ero salito sul treno, era rimasto nelle mani della mia amica che accortasi dell’inghippo lo diede al volo ad un passeggero affacciato alla finestra dicendogli che a bordo del treno c’era un passeggero senza biglietto e così fu consegnato al controllore; fortunatamente il controllore lo ricevette prima che il treno ripartisse altrimenti sarei rimasto tutta la notte in una stazione sconosciuta e senza un soldo in tasca, ma la ciliegina sulla torta fu il fatto che in tutto questo trambusto non trovai più il recapito telefonico della mia amica francese, per cui non potei mai ringraziarla, né risentirla e tantomeno rivederla.

Trascorsi le feste natalizie a casa e durante questo tempo mi fu offerto un posto di lavoro presso l’Ispettorato del Lavoro, caldeggiato dal mio compare di Cresima Laganà, originario della Calabria e direttore generale dell’Ufficio di Collocamento di Siracusa e provincia, che naturalmente rifiutai poiché la mia mente ed il mio cuore erano rimasti a Parigi. Inutile ricordare che né io e né il mio amico Silvio completammo mai gli studi parigini.

Nel Febbraio del 1971 fui bloccato a letto da un forte raffreddore e relativa febbre mentre pensavo e ripensavo come organizzarmi per ritornare a Parigi, un pomeriggio bussarono alla porta tre signori di Siracusa che chiesero a mia madre di poter parlare con il Geom. Francesco Romano; era un titolo professionale a cui mia madre non era ancora abituata e dopo qualche istante d’imbarazzo rispose che il ‘geometra’ era momentaneamente in bagno e che sarebbe arrivato di lì a poco, facendoli accomodare nel frattempo nel salone di casa nostra.

Quando arrivai nel salone questi si alzarono presentandosi come soci di una ditta edile che aveva ottenuto un appalto in Germania per la costruzione di dieci palazzine alla periferia di Karlsruhe nella Regione della Foresta Nera; praticamente cercavano un geometra che ‘spiccicasse’ qualche parola di lingua tedesca e disposto a trasferirsi in Deutscland per almeno un anno per svolgere il lavoro di Capo cantiere.

Non avevo nessuna idea di ciò che mi proponevano ma mi dissero che la mia paga era di 700 Marchi al mese (l’equivalente di circa 1 milione di lire) + vitto e alloggio a carico della Ditta; alla fine nelle trattative riuscii ad ottenere 800 Marchi

+ vitto e alloggio a loro carico ed erano disposti ad anticiparmi 500.000 lire prima della partenza fissata nelle successive settimane e naturalmente accettai subitamente.

Col tempo poi capii il senso di questa proposta e cioè che in Germania il Capo Cantiere è il responsabile legale di tutto ciò che avviene nell’area del cantiere stesso e cioè seguire tutti i lavori di sbancamento, le gittate del cemento nei solai, gli allacci idrici e fognari, l’impianto elettrico ed in ultimo verificare la staticità della costruzione, insomma tutte incombenze di cui non avevo nessunissima esperienza; i miei datori di lavoro avrebbero potuto chiamare un qualsiasi geometra italiano nativo dell’Alto Adige parlante perfettamente tedesco, ma questii avrebbero preteso il loro onorario del 6% sull’importo complessivo dei lavori così come previsto dalle leggi italiane.

I 3 soci, il Sig. Battaglia, il Sig. Boscarino ed il Sig. Campo preferirono risparmiare chiamando me, malgrado avessi detto loro ripetutamente che essendo fresco di diploma non avevo alcuna esperienza in merito al Cantiere e poi il mio tedesco era alquanto lacunoso; mi assicurarono che il Sig. Battaglia era un vecchio lupo dei cantieri e soprattutto sapeva leggere ed interpretare le mappe e le piante dei fabbricati e per quanto riguardava la lingua tedesca nelle riunioni importanti avrebbero chiamato un interprete per l’occasione; io dovevo solo firmare le richieste degli allacci acqua e luce e curare i rapporti con le istituzioni.

Il giorno fissato per la partenza ci ritrovammo alla Stazione di Siracusa poiché proprio quel giorno ci fu lo sciopero degli aerei e poi ci dovevamo fermare a Milano dove ci attendeva il socio Campo; in partenza da Siracusa fummo in totale 5 persone poiché oltre me e i due soci si aggiunsero due muratori di fiducia della Ditta.

Lasciammo Siracusa nella seconda mattinata e intorno alle ore 13,00 eravamo giunti nei pressi di Messina quando uno dei muratori scese dalle cappelliere una valigia che si rivelò da subito una bottega di generi alimentari in miniatura; i due muratori sembravano molto compiaciuti mentre tiravano fuori dalla valigia ogni ben di Dio, olive condite, salsiccia secca, caciocavallo e pomodorini secchi per non parlare del vino di Pachino cosi come a quei tempi chiamavamo il Nero d’Avola e senza tralasciare d’invitare anche i vicini che occupavano gli scompartimenti limitrofi al nostro.

Era un cerimoniale abituale a quei tempi che apriva le porte alla socializzazione e le amicizie sincere si protraevano ancora per anni; avevo l’impressione di vivere all’interno di una delle numerose scene dei films del ‘neo realismo’ italiano.

Poco più di 24 ore dopo arrivammo a Milano, accolti dal socio Campo il quale ci portò in un appartamento milanese dove una bellissima ed elegantissima signora ci aveva preparato un pranzetto niente male, fortunatamente molto diverso da quello del giorno precedente; lo stesso giorno a tarda sera prendemmo il treno per Dusseldorf che per nostra fortuna era era mezzo vuoto.

Mentre attraversavamo la Svizzera, alle prime ore del mattino rimasi affascinato dal fatto che centinaia di persone, giovani ed anziani, ad ogni fermata salivano e scendevano in continuazione dal treno, quasi tutti con gli sci al seguito;ad un certo punto mi ritrovai nel corridoio con una bellissima ragazza dai capelli biondi e fluenti che parlava perfettamente italiano; ci siamo messi a parlare mentre i miei compagni di viaggio dormicchiavano nel nostro scompartimento e mi raccontò che si chiamava Helga ed era tedesca di Dusseldorf, che abitava in toscana dove lavorava in un maneggio insegnando ai bambini ad andare a cavallo ma di tanto in tanto ritornava in Germania.

In così buona compagnia non mi resi conto del passare del tempo poiché nel frattempo lei mi aveva invitato nel suo scompartimento nel quale lei era la sola occupante; mi accorsi che si era fatto giorno quando vidi i miei compagni di viaggio che non avendomi visto mi avevano cercato per tutto il treno.

Quando videro che io ero in buona compagnia, recuperarono le loro valige e vennero ad installarsi nello scompartimento della ragazza tedesca iniziando a disturbarla e comportandosi in modo poco corretto; Helga reagi in modo energico costringendo i ‘compari’ a rientrare nel loro scompartimento e noi ricominciammo a parlare del più e del meno fino all’arrivo a destinazione cioè a Dusseldorf intorno alle ore 10,00.

Prima di lasciarci io ed Helga convenimmo di ritrovarci la sera alle 20,30 proprio davanti alla Stazione e seguii i miei ‘amici’ in un Hotel poco distante e decidemmo di ritrovarci tutti la sera ma senza di me poiché impegnato con Helga; passammo una serata bellissima tra ristorante e discoteca fino a tarda notte poi prendemmo un taxi e andammo a casa sua dove trascorremmo la notte e la mattina seguente mi presentai puntualissimo all’appuntamento con i miei datori di lavoro che mi tempestarono di domande su come avessi trascorso la notte ma io geloso della mia vita privata sin da giovane, fui molto evasivo.

Trascorremmo la giornata parlando di lavoro e ci preparammo all’incontro del giorno dopo con i vertici della Neue Heimat, la società tedesca che ci aveva chiamato in causa; la riunione si fece in presenza di un interprete qualificato e dopo aver firmato una miriade di carte, sia io che i legali rappresentanti della nostra società, depositai copia del mio diploma di geometra con relativa traduzione giurata in tedesco.

Noi dopo 2 giorni lasciammo Dusseldorf e ci trasferimmo nella città di Karlsruhe nella cui periferia dovevano sorgere le 10 palazzine; in quanto ad Helga la rividi il mese successivo quando venne a trovarmi nella mia nuova residenza.

Prendemmo visione del terreno ed intanto arrivarono da Siracusa altri due muratori di fiducia; prendemmo accordi per l’acquisto di sabbia, ghiaia e cemento nonché legno e ferro, così i nostri muratori di fiducia costruirono una baracca in legno che doveva essere la sede del nostro ufficio.

Pensavamo che la notizia dell’apertura di un nuovo cantiere avrebbe spinto qualche muratore disoccupato a contattarci ed invece niente e questo fatto ci indusse a cambiare metodo di arruolamento; un giorno mi presentai all’Arbeitsamt ovvero il locale ufficio di collocamento per avere eventuali contatti di manodopera siciliana o quantomeno italiana; l’impiegato di turno mi disse che c’erano circa mille iscritti tra manovali e muratori ma quando venivano chiamati non si presentavano sul posto di lavoro e l’impiegato stesso mi consigliò di cercare nei Bar frequentati da italiani che sicuramente avrei trovato qualcosa.

Dopo aver reperito un Bar italiano e avendo sentito il Banconista parlare napoletano, gli chiesi se conosceva qualcuno disposto a lavorare nel nuovo cantiere; il napoletano chiamò Giuseppe, Giovanni, Concetto e tanti altri i quali si avvicinarono al mio tavolo chiedendo della paga o delle condizioni iscrivendo nel mio Notes una settantina di nomi e dando loro appuntamento direttamente al cantiere alle ore 07,30.

Per il nostro lavoro avevamo bisogno di circa 35 operai ma io avevo preso una settantina di iscrizioni e grande fu la nostra delusione quando il giorno dell’appuntamento si presentò un solo operaio; in definitiva scoprimmo che vi erano un mare di fannulloni i quali vivevano con gli incentivi che lo Stato tedesco dava ai disoccupati e così gli operai furono fatti venire dalla Sicilia ed alloggiati nelle baracche.

Io invece vivevo da Principino, avevo il mio appartamento, il pasto serale che consumavo nei vari ristoranti mi era interamente rimborsato e comprai perfino un’auto d’occasione; con Helga ci vedevamo ogni fine mese, poi ci perdemmo di vista e non la rividi mai più.

Tra i ristoranti che frequentavo la sera ce n’era uno, il Wienerwald la cui cameriera di origini polacche era molto carina e che io naturalmente corteggiavo da molto lontano in quanto mi aveva detto che il marito era un militare di stanza in una base poco fuori la città; una sera sorprendentemente mi invitò a casa sua per bere una birra ma solo dopo la chiusura del ristorante.

Non me lo feci ripetere due volte e alla chiusura del locale mi feci trovare al luogo dell’appuntamento, poco distante ed insieme ci dirigemmo a piedi verso casa sua, tranquillizzandomi in quanto il marito era assente per motivi di lavoro; quella sera la neve ricopriva abbondantemente la città ma la casa della mia amica era ben riscaldata ed in un attimo ci ritrovammo sul letto completamente nudi.

Mentre eravamo sul più bello, sentimmo armeggiare una chiave nella toppa della porta esterna e non poteva essere che il marito mentre una gran paura mi assalì, ma fui rassicurato dalla sua calma e freddezza; mi disse di prendere i miei vestiti andare sul balcone a rivestirmi per poi sgaiattolare via e così feci,

Mi rivestii in fretta, anche perché la temperatura esterna era sottozero e fortunatamente il balcone era situato al primo piano per cui data la mia giovane età non mi fu difficile lanciarmi sulla neve fresca e mi allontanai velocemente da quel luogo; qualche giorno dopo ritornai in quel ristorante e la cameriera polacca di cui non ricordo il nome si scusò per l’imprevisto, riformulandomi l’invito che io naturalmente rifiutai.

Il lavoro del cantiere non faceva per me per cui avevo sempre meno voglia di lavorare in quell’ambiente e così dopo circa 3 mesi con la scusa di aver avuto uno scambio di opinioni con il datore Campo diedi le dimissioni e ritornai a Siracusa; seppi in seguito che il lavoro andò a rotoli e che la società fallì e che i soci rientrarono precipitosamente in Italia per non finire in galera.

A Siracusa ritrovai il Prof. Carbé il quale nell’intento di aiutarmi mi passava qualche lavoretto di guida quando lui era impegnato; per il resto andavo con i miei amici a pesca subacquea oppure gironzolavo per la città, tra il Caffè della Posta, il Teatro Greco e la Fonte Aretusa e la sera con i soliti amici si trovava sempre dove andare a cenare.

Intanto nell’Agosto del 1971 il Prof. Carbé mi riferì che un certo Giovanni Ciceroni, palermitano che accompagnava spesso turisti francesi provenienti dal Villaggio Club Mediterranée di Cefalù, sapeva di un Tour Operator palermitano Aerotourisme V.T. il quale cercava urgentemente qualcuno che parlasse un po’ di francese e che conoscesse la Sicilia per sostituire un accompagnatore francese che aveva dovuto abbandonare precipitosamente il gruppo a causa della morte improvvisa della madre.

Non me lo feci dire due volte e subitamente accettai; ero felicissimo in cuor mio anche se avevo una gran paura di non essere all’altezza del compito che non mi era stato ancora affidato; il T.O. però voleva conoscermi fisicamente per cui dietro loro consiglio comprai un biglietto aereo della compagnia ATI dal costo di 800 lire e mi recai all’aeroporto di Catania dove presi un aereo con le eliche, un Fokker 27 che dopo tre quarti d’ora atterrò a Punta Raisi.

Era la prima volta che prendevo l’aereo e provavo un insieme di gioia, di paura e di emozioni in mezzo a tutta quella gente importante o almeno credevo che lo fossero, quasi tutti in giacca e cravatta e l’immancabile valigetta ’24 ore’; per l’occasione io indossavo una camicia colorata che certamente stonava in mezzo a quei politici e uomini d’affari, come ebbi modo di sapere in seguito.

Nel 1971 non esisteva nessuna autostrada in Sicilia per cui da Siracusa a Palermo, ci si impiegava non meno di 11/ 12 ore di trasporto, comprese le coincidenze ed ecco perché avevo preferito l’aereo il cui costo era eccessivo.

Arrivato a Palermo, città in cui non ero mai stato, presi un taxi e mi recai alla sede di Aerotourisme V.T. dove fui accolto dal Contabile, Rag. Fistetto il quale a sua volta mi indirizzò dal Sig. Costa che doveva verificare le mie conoscenze sia della lingua francese che dei vari monumenti siciliani; Costa mi fece alcune domande sulla Valle dei Templi a cui naturalmente non seppi rispondere e si allontanò ritornando qualche minuto dopo con un malloppo in cui c’erano i dettagli del viaggio.. in pratica con mia grande sorpresa, ero stato assunto.

Rimasi un’oretta con il Sig. Costa per ricevere tutte le informazioni riguardanti il programma, i mezzi di trasporto, i vari pagamenti e soprattutto di non dimenticare di ritirare, al Ricevimento dell’Hotel dei Pini di Porto Empedocle il bustone con dentro i soldi del fondo cassa; quante cose da memorizzare, insicurezza e paura mi pervasero ed il mio francese maccheronico divenne l’ultimo dei miei pensieri. Speravo di aver capito tutto.

In giornata stessa ritornai all’Aeroporto di Punta Raisi pronto per imbarcarmi sul Fokker 27 che mi avrebbe riportato all’Aeroporto Fontanarossa di Catania; all’epoca non c’erano molti controlli e bastava mostrare il biglietto e lo steward lasciava salire a bordo, ed una volta all’interno, manco a dirlo, ognuno prendeva posto dove voleva.

Una volta sulla pista la voce gracchiante dell’altoparlante farfugliò qualcosa d’incomprensibile ma non vi feci caso mentre notai che l’aereo che si era già mosso verso la pista di decollo, stava ritornando al punto di partenza; a questo punto m’insospettii e chiesi al mio vicino cosa stesse succedendo e quello mi rispose che a bordo c’era un passeggero che andava a Catania mentre quell’aereo andava a Cagliari.

Ero salito sull’aereo sbagliato, colpa anche dello Steward che non aveva verificato bene la destinazione riportata sul biglietto aereo dato che all’epoca non esisteva la ‘carta d’imbarco’ e così fui fatto scendere. Oggi sarebbe inconcepibile una cosa del genere.

Una volta atterrati a Catania proseguii con il bus della Ditta Bozzanca fino a Siracusa, dove per prima cosa andai a casa del Prof. Carbé per ringraziarlo di questa opportunità ma lui sapeva già tutto poiché gli era stato comunicato; il giorno dopo dovevo trovarmi a Porto Empedocle, Hotel dei Pini dove mi aspettava il Grp Touring Club de France, composto da 35 persone.

Una volta arrivato a casa i miei genitori mi tempestarono di domande e malgrado fossi stanchissimo rispondevo prontamente a tutti e nello stesso tempo rivedevo la mia giornata ricca di esperienze e di emozioni.

Il Gruppo di francesi che dovevo guidare per tutta la Sicilia aveva un programma molto articolato dalla durata di quindici giorni, comprese le Isole Eolie, il quale m’attendeva il giorno dopo prima di cena all’Hotel dei Pini di Porto Empedocle; io non sapevo neanche dove fosse Porto Empedocle e la mattina, mentre mia madre mi preparava la valigia, io ero impegnatissimo a studiare la cartina geografica della Sicilia per capire come fare per raggiungere quella località.

Dopo mille peripezie capii che non c’era nessun mezzo pubblico che andasse in quella zona in tempi ragionevoli; l’unica soluzione era quella di chiedere a mio padre di accompagnarmi con la sua Fiat 600.

Mio padre si prestò subito ad accompagnarmi ma mia madre volle venire con noi e nel primissimo pomeriggio partimmo portandoci dietro mio fratello Gerardo che all’epoca aveva 11 anni; dopo aver percorso infinite strade polverose e dopo aver impiegato circa 6 ore di trasporto arrivammo finalmente a destinazione; Porto Empedocle Hotel dei Pini.

Entrai in Hotel ed il Direttore Sig. Cannamela mi venne incontro dandomi il benvenuto ed invitandomi a seguirlo in ufficio per la consegna del bustone che conteneva 4.200.000 lire; rimasi come paralizzato, non avevo mai visto tutti quei soldi in vita mia, d’altronde a quei tempi non esistevano i voucher e bisognava pagare tutto in contanti; all’ora di cena mi presentai al gruppo che mi attendeva nella hall dell’Hotel dando loro le informazioni sugli orari e sul programma del giorno dopo e siccome l’albergo era isolato rispetto alla città di Agrigento, dopo cena non ci rimase che andare a dormire.

A causa del ‘bustone’ contenente tutti quei soldi, non potei dormire tutta la notte per la paura che durante il sonno qualcuno s’intrufolasse nella mia camera e mi portasse via il bustone; dietro la porta della mia camera avevo sistemato una sedia in posizione trasversale in modo da puntellare la porta e il bustone lo misi sotto il mio cuscino.

Il giorno dopo in mattinata visitammo la Valle dei Templi, accompagnati dalla Guida locale, il Prof. Pietro Arancio, una persona molto preparata nel suo lavoro con vaste conoscenze nel settore della Botanica, con la quale incantava i suoi ospiti; da lui appresi tanto.

Io non conoscevo per niente le varie tappe del viaggio, a parte Taormina, Catania e Siracusa; oltre ai Templi di Agrigento vidi per la prima volta, i Mosaici policromi della Villa del Casale di Piazza Armerina, ma non ero il solo a sconoscere la Sicilia, poiché gli autisti provenivano dai camions e non conoscevano né le strade e né le tappe turistiche per cui il giorno che andammo ad Enna, per visitare il Castello di Lombardia ad ingresso gratuito, salimmo per le scale e ci affacciammo dai bastioni per ammirare il paesaggio e a quel punto guardando giù vedemmo che il nostro autista Agostino della Ditta Giordano Inzerillo aveva scaricato tutte le valige del gruppo.

La cosa mi sembrò strana e gridando chiesi ad Agostino il perché avesse scaricato le valige e lui mi rispose candidamente che aspettava i fattorini dell’Albergo che dovevano ritirare le valige per poi distribuirle nelle varie camere; aveva semplicemente confuso il Castello con un Albergo.

IL SOGNO

Era uno di quei pomeriggi uggiosi, ma non freddi, tipici dei nostri inverni siracusani quando l’umidità, attraverso la sua massiccia presenza ci annuncia lo Scirocco che in un certo senso ti blocca in casa; per quel che mi riguarda, a quel punto leggo distrattamente un libro sonnecchiando allo stesso tempo ed in questo dormiveglia ‘vivo’ dei sogni che sembrano films, con tanto di trama e di dettagli che a volte svegliandomi improvvisamente, ho l’impressione di essere ancora all’interno del sogno.

Altre volte mi assale la malinconia e i miei pensieri mi trasportano nelle gioiose calde estati trascorse oppure mi fanno viaggiare per luoghi paradisiaci, come quando l’altro giorno mi ritrovai a Parigi, città in cui ho vissuto un paio d’anni durante la mia gioventù e di cui conservo indelebili ricordi, mentre passeggiavo da solo lungo i Grands Boulevards volli sedermi in una delle numerose terrazze dei Grand Café.

Mentre sorseggiavo il mio rinfrescante Pernod alla menta, una bellissima signora elegante e di classe venne a sedersi poco distante da me, accolta da uno smagliante sorriso per cui ero famoso; fu il fatidico colpo di fulmine che ci travolse entrambi ed in brevissimo tempo ci ritrovammo abbracciati, scambiandoci voluttuosi baci sotto gli sguardi ammiccanti degli astanti.

Mentre accarezzavo il bellissimo volto della donna di cui non conoscevo neanche il nome, ebbi come un picco di tristezza improvvisa ed incominciai a piangere ma allo stesso tempo continuavo a baciarla e fu allora che mi accorsi che anche lei piangeva; poi venne un uomo e la portò via gentilmente ma noi ci seguimmo con lo sguardo fino a che lei scomparve e svanì pure il sogno.

Una volta realizzato che era stato solo un sogno, notai delle lacrime sulle mie guance.

Nel frattempo già dall’anno precedente mi ero fatto la nomea di guida turistica e quando nel Porto Grande di Siracusa arrivava una qualche nave da Crociera, l’Agenzia Bozzanca di Siracusa, sita in Corso Matteotti, nella persona del factotum Sig. Mascellini mi chiamava per fare da guida ai croceristi: a quell’epoca un numero impressionante di turisti aderiva alle escursioni a terra e noi guide aspettavamo i clienti, ognuno vicino al proprio bus numerato, parcheggiati alla Marina e tutti ben allineati; venivano guide da Catania, di Messina e poi c’eravamo noi ‘abusivi’, ma bisogna dire che a quei tempi i servizi di guida erano molto, ma molto approssimativi, quindi venivano arruolati tutti coloro che balbettassero una qualche parola di lingua straniera.

La paga giornaliera era di 12.500 lire, ma com’era nelle abitudini di allora i croceristi lasciavano laute mance alla guida che poi le divideva ‘fraternamente’ con l’autista e quasi sempre si litigava per la spartizione del ‘bottino’; agli inizi degli anni settanta, la paga e le mance rappresentavano una notevole fonte di guadagno ma purtroppo gli approdi delle navi da crociera a Siracusa erano molto rari.

Fu proprio in uno di questi eventi

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